Torino Marathon: il buonsenso di dire stop

Sono ore febbrili in molti dei gruppi dedicati alla corsa, presenti sui social. Le polemiche si sono fatte roventi e come spesso accade in questi non luoghi di discussione, trascendono nel fondamentalismo, che in qualunque campo venga trasposto è sempre sinonimo di negatività. Ecco i fatti. La scorsa domenica la Maratona di Torino viene annullata a causa della temuta, e poi puntualmente verificatasi, piena del Po, favorita dal maltempo che da diversi giorni imperversava sul nord Italia. Gli organizzatori probabilmente hanno sperato fino all’ultimo istante di poter dare il via alla manifestazione, nonostante l’allerta meteo, ma solo a trenta minuti dal via, quando il sindaco di Moncalieri vieta il transito degli atleti, viene presa la decisione, dolorosa ma corretta, di non far partire la gara. Il disappunto a botta calda di chi ha affrontato la trasferta e si è preparato per mesi per quell’appuntamento, seppur inopportuno viste le circostanze, è comprensibile. Ma a mente fredda, col proverbiale senno di poi, tutti dovrebbero convenire che la vita e la sicurezza anche di una sola persona vale più di qualunque maratona, nonostante tutti sacrifici a cui ci si è sottoposti per giungere pronti alla partenza. Invece accade che molti runners, quelli presenti ma anche quelli non presenti, si scagliano contro gli organizzatori, (mi piacerebbe dire che questo mi sorprende, ma purtroppo non è così) rei di aver osato togliere il pane di bocca agli affamati, con la loro decisione. Altri se la prendono più in generale con tutto il paese, col sempre utile commento “della soluzione all’Italiana” che sta bene un po’ su tutto, sempre pronto al bisogno. Immancabile e puntuale anche la richiesta di dimissioni da parte di chiunque capiti a tiro dei podisti defraudati dell’occasione di disputare oltre a una maratona, una gara di nuoto. Sulla stesa lunghezza d’onda anche chi commenta che “all’estero c’è maggiore serietà e questo non sarebbe mai successo”, dimenticando che nel 2012, con tutto il mondo già in casa propria, gli organizzatori della New York Marathon presero la difficile decisione di non far disputare la gara, a causa dell’uragano Sandy.

Facendosi più seri, mi chiedo: davvero vogliamo correre sempre e comunque? Davvero vogliamo disputare la nostra gara qualunque siano le condizioni ambientali? Davvero vogliamo disputare la nostra maratona costi quel che costi? Vogliamo passare sopra ogni cosa, rinunciando alla nostra sicurezza e a quella degli altri? Rischiare di mettere a rischio persino la vita? Era così forte il desiderio di passare in rassegna con i nostri bei pantaloncini davanti a gente che magari cercava di mettere in salvo la propria casa e tutte le proprie cose? Se correre diventa un imperativo categorico, non è più lo sport che amo. Non è più divertimento, allegria, gioia, dolce supplizio, ma solo inutile calvario. Se “vogliamo” diventa “dobbiamo” dovremmo fermarci a riflettere, perché c’è qualcosa di sbagliato nel nostro modo di affrontare le cose. Lasciando per un attimo da parte i regolamenti, che naturalmente prevedono ogni tipo di evenienza, qui si parla di buon senso, quindi mi domando: fino a dove ci si può spingere, prima di dire basta? Esiste una gara abbastanza lunga, abbastanza dura, abbastanza lontana, abbastanza pericolosa, abbastanza al limite, di qualunque limite si tratti, perché  si possa dire finalmente basta? Esiste un punto arrivati al quale ci si può concedere il “lusso” di rinunciare? Dopo il bordo del precipizio, c’è solo il vuoto, non si va più in là. Credo che bisognerebbe ritrovare la giusta dimensione delle cose, perché a furia di frasi tipo “mai mollare” seguita da tutto il repertorio possibile e immaginabile, si rischia di perdere di vista le cose davvero importanti e di trascurare il buonsenso. Personalmente, ma qui si entra in considerazioni di carattere del tutto personale, non amo neanche i video che talvolta compaiono in internet, che mostrano maratoneti al limite delle proprie possibilità, che caracollano pericolosamente fino a cadere rovinosamente al suolo. Che strisciano, che vengono portati a braccia fino al traguardo. Queste non sono immagini eroiche. Non c’è niente di eroico nel ridursi in quel modo. Quella è solo l’immagine di una passione che ci ha divorato fino a sfinirci, che ci ha portato ad un limite a cui non dovremmo mai arrivare, perché non è sano arrivarci. Non è così che vedo rappresentato il coraggio, la perseveranza, la voglia di farcela. Quello è disfacimento psicofisico, con una posta troppo alta in palio. A questo punto trovo giusto che se non siamo capaci di fermarci, se non siamo capaci di trovare un limite, se abbiamo smarrito il buonsenso, ci sia qualcuno che prenda per noi, come nel caso degli organizzatori a Torino, la decisione di fermare la giostra.