
Se c'è un uomo che rappresenta la corsa coi suoi successi, e in particolare la maratona, questo è Stefano Baldini. Basta scorrere il suo palmares: medaglia d'oro olimpica ad Atene nel 2004, due medaglie d'oro agli europei di atletica nel 1998 a Budapest e nel 2006 a Goteborg. Due bronzi ai campionati del mondo nel 2001 e nel 2003, e infine due volte campione del mondo nella mezza maratona, senza contare i primati a livello cronometrico. Incontro Stefano poco prima di Natale, in un bar di una celebre via dello shopping milanese, e capisco subito di avere davanti a me un campione, ma allo stesso tempo una persona come tante.
Ciao Stefano, partiamo dal tuo primo risultato importante nella maratona: il secondo posto a Londra nel '97, cosa ricordi di quella gara?
Quella è stata la mia terza maratona corsa in carriera, i miei esordi non erano stati memorabili, sulla distanza dei 42,195 km. Londra ’97 è stata la gara in cui il matrimonio tra me e la maratona si è consumato. Fu sorprendente per me quel secondo posto, e posso affermare che con una maggiore esperienza, di cui allora, non ancora ventiseienne ero deficitario, probabilmente avrei vinto.
Ricordo che l’inizio fu molto veloce, poi dal quinto chilometro lasciai andare il gruppetto di testa, e corsi da solo fino quasi al trentesimo chilometro. Quando in testa alla gara la tattica prese il sopravvento, rientrai sui primi continuando a correre del mio passo. Quando li raggiunsi, presi in mano le redini della corsa, e la vittoria mi sfuggì solo in volata, contro Antonio Pinto. Chiusi sotto le 2h08’ portando via il record italiano al mio idolo giovanile, Gelindo Bordin, col quale condividevo l’allenatore, il professor Gigliotti.
Da quel momento hai realizzato che potevi diventare uno dei migliori maratoneti al mondo?
Onestamente si, nel 1997 il tempo con cui chiusi la maratona di Londra era uno dei primi trenta di sempre, l’Africa ancora non spadroneggiava come oggi, anche se c’erano alcuni atleti di colore molto forti. Ero uno dei pochi atleti europei che poteva rivaleggiare con loro, infatti, da quel giorno, per me si aprirono delle autostrade verso l’atletica di alto livello.
Veniamo al tuo oro ad Atene, è rimasto qualcosa di non detto, rispetto a quella gara?
Su Atene credo di aver detto proprio tutto, sono stati scritti articoli, ho scritto libri, l’argomento è stato davvero sviscerato fino in fondo. Forse solo oggi, dopo tanti anni, mi rendo conto di quanto è stata grande quell’impresa. Il 2004 fu per me un anno di grande condizione psicofisica, crebbi giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento. Durante quella gara dimostrai di poter correre forte quanto gli africani, misi tutto ciò che avevo in quelle che furono le due ore migliori della mia vita sportiva, e questo è stato ancora più importante che vincere la medaglia d’oro.
Mi rendo conto che la prossima domanda non ti piacerà, ma il mio mestiere è appunto, fare domande: Vanderlei De Lima l’avresti raggiunto ugualmente, se non fosse stato aggredito da uno spettatore?
Beh, questa è una domanda a cui ho risposto migliaia di volte, e che viene soprattutto da i non addetti ai lavori. La domanda con cui, da quasi quindici anni, devo quasi giustificare la mia medaglia d’oro. Gli split parlano chiaro, avrei vinto comunque la gara. Lui è stato bravissimo, perché riuscì a reagire a un momento di grande difficoltà, tanti non sarebbero riusciti a riprendere la competizione, e grazie a quell’evento sarà per sempre la medaglia di bronzo più famosa della storia delle Olimpiadi. Lo stesso Vanderlei, a distanza di tempo, ha ammesso che quel giorno io ero stato il più forte.
Cosa si prova quando non hai ancora tagliato il traguardo, ma sai che stai per vincere la medaglia d’oro olimpica?
Ricordo che quando a quattro chilometri dalla fine rimasi da solo, mi dissi: “Dai, ora godiamoci questi ultimi undici minuti”. Che poi in realtà furono meno di undici, in quanto nel finale andai fortissimo, e se da un lato non vedevo l’ora di tagliare il traguardo, dall’altro non volevo che quegli istanti passassero troppo alla svelta, perché stavo vivendo un momento di grande esaltazione. Sbranavo la strada, vedevo maturare sotto i miei piedi il risultato per cui avevo lavorato una vita.
A parte Atene, quale consideri la tua gara migliore?
Direi la maratona del Campionato d’Europa 2006 a Goteborg. Nonostante fossi consapevole che il mio momento migliore fosse passato, e la carriera si avviava alla conclusione, riuscii a vincere l’oro a trentacinque anni. Mi ricordo che quel giorno dopo la gara dissi: “Vincere è bello, ma rivincere è ancora più bello”.
Secondo la tua esperienza, è più difficile conseguire il primo successo, o confermarsi al vertice?
Non ho dubbi, è più difficile vincere di nuovo. Dopo la prima vittoria importante gareggi con uno zaino, un vero e proprio bagaglio di aspettative, personali e dell’ambiente che ti circonda, che rende molto più tortuoso il percorso verso il successo.
Risultati alla mano, si può affermare che negli anni che vanno tra il 1998 e il 2006 tu sia stato il maratoneta migliore al mondo?
Molto difficile da stabilire, sono stati tanti gli atleti forti in quegli anni. Oggi si parla tanto di ranking, ricordo che fui il primo numero uno della storia del ranking IAAF, e rimasi tra i primi tre per un paio di anni. Mi va bene essere considerato uno dei migliori, non si vive solo per essere il migliore, e non si può essere il numero uno in eterno, è già bello esserlo stato per un certo periodo della propria vita sportiva.
L’ unico oro che ti manca é quello del campionato mondiale, per te é un rammarico?
Non sono mai arrivato all’appuntamento iridato al cento percento della forma, e poi bisogna accettare il fatto che alcune volte c’è qualcuno più bravo di te. Nella carriera di ogni sportivo c’è sempre una “lacuna”, e comunque non si può mai sapere come il destino sarebbe potuto cambiare: magari vincevo il campionato del mondo, e perdevo mordente nei confronti delle Olimpiadi, chi lo sa? E poi, per esempio, non ho mai vinto nemmeno una major, me ne sono fatto una ragione, in tutta tranquillità.
Capitolo infortuni: come hanno condizionato la tua carriera?
Il biennio 1999-2000 doveva essere il momento clou della mia carriera, purtroppo non fu così, proprio a causa degli infortuni. Durante la maratona all’ Olimpiade di Sidney, mi dovetti fermare a causa di una frattura da stress al bacino. Fu un momento molto difficile per me, avevo praticamente deciso di smettere in seguito a quella delusione, ma la voglia di rivalsa ebbe la meglio.
Bordin vince a Seoul nel 1988. Dopo sedici anni, arriva il tuo successo ad Atene. A Tokio, nel 2020, ne saranno passati altri sedici, seguendo la “regola dei sedici anni” vinceremo un’altra medaglia d’oro?
C’è qualcuno che è in rampa di lancio, ma al momento la medaglia d’oro mi sembra un obiettivo difficile da raggiungere. Ci sono più possibilità di podio, secondo me, ma deve andare tutto molto bene, durante la gara. Nel corso del tempo che ancora ci separa all’appuntamento olimpico, se non ci sarà una maggiore crescita di tutto il movimento, sarà molto difficile per gli azzurri andare a medaglia.
A proposito di movimento azzurro della maratona, qual è il suo stato di salute?
A livello maschile, rispetto ai miei tempi, oltre alla quantità, manca la qualità. Allora eravamo in 6/7 atleti capaci di correre dalle 2h11’ in giù, questo stimolava la competizione tra di noi, che ci spingeva a migliorarci. E a questo scopo, anche se magari non eravamo proprio tutti amiconi, ci allenavamo insieme, avevamo una mentalità molto aperta. Personalmente sto seguendo i gemelli Dini, di Livorno, che nel 2019 faranno il loro debutto in maratona. Hanno un ottimo potenziale, ma è presto per poter fare previsioni sul loro futuro.
Siamo messi meglio a livello femminile, siamo più competitivi a livello mondiale, nonostante alcune delle nostre ragazze siano piuttosto mature, hanno dimostrato di poter conseguire ancora buoni risultati.
Il riferimento a Valeria Straneo mi pare evidente: è recentissima la notizia che sarai il suo allenatore. Come nasce il vostro sodalizio, e quali risultati vi prefiggete?
L’idea è di Valeria. Circa un mese fa mi ha chiesto se ero disponibile a seguirla, nel percorso che la dovrebbe portare alla sua terza Olimpiade. Ci ho pensato un po’, e alla fine ho detto sì, mi è sembrata una ottima idea. Valeria è una mamma/atleta matura e ancora molto ambiziosa, e se non incorrerà in contrattempi di natura fisica, darà ancora moltissimo al running italiano.
Come è cambiato questo sport dalla tua vittoria alle Olimpiadi a oggi?
Qualcuno ha parlato di effetto Baldini, cioè la mia vittoria ad Atene ha fatto da trampolino di lancio per il movimento podistico italiano. Oggigiorno è un mondo che va a due velocità: ci sono gli agonisti, e poi ci sono quelli che praticano questo sport per tenersi in forma, per stare in salute, che sono la maggior parte. Tendenzialmente perché è il modo di fare attività fisica più immediato ed economico che c’è, e proprio per questo la corsa è così popolare. Alcune delle gare che vengono organizzate sono più degli happening che delle vere e proprie competizioni, ma ci sta tutto. La cosa che più mi fa piacere è che abbiamo preso coscienza che le città si possono vivere anche in questo modo, e che non appartengono solo a chi ha un mezzo motorizzato.
Mi è capitato in questi mesi di intervistare grossi campioni molto arrabbiati con la federazione, non solo dell'atletica. Secondo te perché si spezza il filo che lega atleti e politica dello sport?
Alcune volte hai amato così il tuo sport, che quando smetti di gareggiare decidi di lasciarlo definitivamente, e solitamente lo si lascia male. Questo è un peccato, bisognerebbe sentire di più la responsabilità di restituire qualcosa allo sport che ti ha dato tanto. Io mi sono divertito nel corso della mia carriera, altri probabilmente non si sono divertiti, non l’hanno vissuta bene. Io non lo mollo il mondo dell’atletica. Capisco che è dura scendere dal podio e reinventarsi una vita lavorativa, io sono stato bravo e fortunato da poter proseguire il mio percorso nel mondo della corsa, per altri non è stato così, e probabilmente ne soffrono.
In chiusura, tra le altre innumerevoli tue attività, lavori a Radio Deejay, con Linus e Davide Cassani. Com'è lavorare con loro?
E’ molto divertente e stimolante, ed è anche un modo per stare al passo con i tempi. La curiosità è il motivo che mi spinge a fare sempre nuove esperienze, in radio o in televisione, per esempio. Linus aveva da tempo deciso di dedicare uno spazio della della domenica allo sport, in particolare all’endurance, così mi ha chiesto di collaborare insieme a lui e a Cassani a questo programma, e il fatto che sia molto seguito mi rende felice.