Simone Leo: "Nella Death Valley dovetti chiedere a Giovanni Storti di smettere di farmi ridere"

Ciao Simone, tu sei l’unico al mondo ad aver corso le sette ultramaratone più dure, quelle che chiamano le Seven Sister, cosa significa questo per te?

Questo primato mi fa piacere, ma lascia un po’ il tempo che trova, la cosa più importante per me è la soddisfazione personale. Era un sogno che ho coltivato per molto tempo, e che solo un anno fa pareva irrealizzabile, dato che ne mancavano ancora tre all’appello. Mettermi in gioco in questo tipo di competizione è sempre e soltanto una sfida con me stesso, mi piace provare ad arrivare al limite delle mie possibilità, e poi spostare il limite un po’ più in là.

Che sensazioni provi, quando realizzi un qualcosa che fino a qualche tempo fa credevi impossibile?

Quando realizzi un sogno, ti rendi conto che quel sogno non era così irraggiungibile, infatti penso sempre che se ce l’ho fatta io, ce la possono fare tutti. Io mi sento un po’ come un ambasciatore, cerco di trasmettere il coraggio necessario alle persone che seguono il mio cammino, e che vogliono cimentarsi in queste gare. Dico sempre loro che non è così difficile come sembra.

Quale è stata la più dura di tutte?

Devo fare delle distinzioni. La più dura come percorso, certamente la Brasil 135: 225 km, 10000 mt di dislivello, quasi tutti su sterrato, pendenze fino al 23%. Quella che invece ho sofferto di più è stata invece la Atene-Sparta-Atene: quattro notti praticamente senza dormire, se non qualche breve sosta, una caviglia che è andata fuori uso quando mancavano ancora centinaia di chilometri alla fine, dolori alle gambe, allucinazioni… un calvario.

Raccontaci come è andata la tua ultima avventura, la Brasil 135

E’ stata più dura di quello che mi aspettavo, comunque certamente la più bella. Non ero mai stato in Brasile, è mi è piaciuto molto: mi sono piaciuti i brasiliani e mi sono piaciuti molto i paesaggi, i panorami. E’ una delle pochissime gare che rifarei, è davvero stupenda. Probabilmente diventerò l’ambasciatore per l’Italia della Brasil 135.

Il tuo soprannome è “Spostando il limite”. Ma quando un ultramaratoneta ammetterà di aver raggiunto il suo limite? sembra davvero che non ne abbiate

La rincorsa del limite è una cosa che mi ha sempre ispirato, anche se questo soprannome è diventato un po’ una condanna. La situazione mi è un po’ scappata di mano, perché non faccio in tempo a finire una gara che subito dopo mi chiedono quale sarà la prossima. Fino a dieci anni fa ero un sedentario, pesavo più di cento chili, e mi infastidivano le persone che praticavano sport. Poi quasi per caso ho cominciato a correre e ho scoperto di avere molta resistenza, da lì è stata una escalation. Cosa ci porta a un così alto livello di sofferenza? Secondo me la bellezza del viaggio, perché molte di queste gare in realtà non sono gare, ma sono delle belle avventure dove la parte sportiva in sé è una delle componenti, ma non l’unica. A dirla tutta, tre anni fa, dopo la Spartathlon, avevo perso un po’ di motivazioni, però la ricerca di un nuovo limite mi ha restituito la voglia, e la macchina è ripartita. Molti non capiscono quello che facciamo, ma come tutte le cose incomprensibili ai più, bisognerebbe provarle.

Secondo te è anche un modo per espiare, fare tutta questa fatica?

Oddio, dovremmo avere delle colpe belle grosse! No, non la penso così, io la vedo sempre come un’avventura positiva, anche nei momenti più brutti. Questa è un po’ la mia forza.

C’è stata una volta che te la sei vista brutta?

Tantissime volte. La tentazione vera e propria di ritirarmi mai, però per esempio nella Atene-Sparta-Atene ho corso praticamente metà gara in costante crisi psicologica. Ricordo che ci fu un momento in cui feci questa considerazione, che mi portò a sentirmi un po’ ostaggio: la gara era partita al sabato alle 7 del mattino, erano le 17 quindi ero in ballo già da dieci ore, e la gara per me sarebbe terminata mercoledì, cioè quattro giorni dopo! Fu un momento molto difficile, che in realtà non fu un momento ma furono due giorni. Se invece parliamo di vedersela brutta dal punto di vista fisico, successe nella 100 km del Sahara. Nella tappa notturna caddi e mi ruppi due costole, arrivai al traguardo poi quando tornai a Milano andai all’ospedale, e solo lì mi diagnosticarono le fratture: quando mi chiesero come fosse successo, quasi non mi credettero!

A cosa pensi quando stai percorrendo in totale solitudine una strada lunghissima, e sei stanco, sporco, affamato? Quali pensieri attraversano la tua mente?

A differenza di tanti miei colleghi che approfittano di queste gare per riflettere sulla loro vita, o comunque per fare profonde riflessioni filosofiche, io ho un solo chiodo fisso: il traguardo. Cerco di frazionarlo in traguardi intermedi chiaramente, perché se al primo chilometro pensi che alla fine ne mancano ancora quasi cinquecento, diventa davvero difficile. L’ultramaratona è l’equilibrio tra la mente che vuole farti continuare, e il corpo che ti chiede di fermarti.

So che hai preso ispirazione dal libro La via della felicità, è vero?

Si, La via della felicità è un manuale contenente ventuno precetti, la guida al buonsenso per una vita migliore. Fino a un certo punto la mia non è stata una vita facile, così oggi cerco sempre di approcciarmi alle cose con una visione positiva. Ho trovato ispirazione in questo libretto, chiaramente non riesco a seguire tutte le sue indicazioni, altrimenti sarei un santo, però se riesci a seguirlo almeno in parte, può essere molto di aiuto per tutti.

Mi dici uno di questi precetti?

A me piace molto “Sii degno di fiducia”. Io lo ritengo fondamentale, cerco sempre di poter godere della fiducia altrui, di comportarmi in modo corretto e leale. Anche “Sii competente”, che io interpreto più come “esprimiti al massimo delle tue possibilità”. Io non vincerò mai una ultramaratona, ma se mi preparo al meglio, sarò competente in quello che faccio.

So che sei stato invitato persino nelle scuole per raccontare le tue avventure

Sì è vero, scuole elementari e medie, e persino allo Iulm, con cui sto dando vita a un progetto più ampio che comprende anche la pubblicazione di un libro. Avrà un focus maggiore non tanto sulla mera prestazione sportiva, ma sarà un vero resoconto della mia storia personale, un po’ alla Forrest Gump.

Ora che hai portato a termine le Sever Sister, cosa puoi fare di più?

Ci sono ancora un sacco di gare che aspettano di essere vissute, ora il focus si sposterà sul circuito delle 135 miglia americane che prevede 3 gare: la Badwater, Brasil 135, Arrowhead 135. Fortunatamente il mondo delle ultramaratone è in forte espansione, ci saranno sicuramente tante altre avventure, non mi sento affatto arrivato.

Alla Badwater hai corso con Giovanni Storti, ve le siete fatte quattro risate?

Si, con Giovanni ci conoscevamo di vista, ma nell’ultimo anno siamo diventati davvero amici, corriamo spesso insieme. Alla Badwater ha fatto parte del mio team di supporto, e per molti chilometri oltre a sostenermi in maniera pratica, passandomi da bere e da mangiare, ha utilizzato tutto il suo repertorio dagli anni 90 a oggi, per farmi ridere. Ad un certo punto gli ho dovuto chiedere di smettere, perché ero troppo stanco per ridere. Verrà con me anche alla Arrowhead.

Si moltiplicano le storie come la tua, di persone che hanno perso molti chili cambiando stile di vita: manda un messaggio a chi crede che non possa fare come te

Vorrei dire loro di non smettere mai di credere nei propri sogni. Io sono l’esempio vivente che se vuoi farlo, lo puoi fare. Non solo non mi ritengo un campione, ma non mi ritengo neanche un atleta, però ho una forte motivazione, ed è quello che mi ha permesso di inseguire i mie sogni. Certo che è non facile, non lo è per nulla, ma questo non vuol dire sia impossibile.

Si fa più fatica a correre una ultramaratona o a fare il ferroviere?

Sicuramente fare il ferroviere, su questo non ci piove, non ho alcun dubbio. Se devo paragonare un brutto turno al lavoro o una ultramaratona, mi pesa senza dubbio di più un brutto turno.