
Quando si pensa allo sport professionistico, di qualunque disciplina di tratti, si ha l'errata sensazione che il dilettantismo sia il lato b del disco, l'altra faccia della medaglia. In realtà sono due mondi solo all'apparenza molto distanti, ma senza gli amatori non ci sarebbero professionisti. Tutti i professionisti vengono da un campetto di periferia, che sia quello della scuola, della parrocchia o del quartiere dimenticato da Dio. Quei campi che d'autunno basta una giornata di pioggia e diventano una palude, e che quando arriva l'inverno diventano più duri dell'asfalto. Quei campi dove dopo l'allenamento si reintegra coi sacchetti di patatine, con le manciate di caramelle. Degli spogliatoi perennemente allagati. Chi accompagna un figlio, un nipote, un fratellino all'allenamento settimanale o alla partita della domenica sa bene di cosa parlo.
Oggi voglio raccontare proprio di una di queste realtà situata nella periferia milanese, dove un manipolo di volenterosi porta avanti il processo educativo di bambini e ragazzi attraverso lo sport, tra mille difficoltà sì, ma con la schiena dritta di chi sa di avere una enorme responsabilità, un ruolo importantissimo all'interno del proprio territorio e non ha nessuna intenzione di lasciare i ragazzi e le loro famiglie a loro stessi. A Cologno Monzese un pezzo di questo onere/onore se lo prende in carico L'Iride Rugby. Trovo ad accogliermi la vicepresidente Lisa Caprotti, che è anche responsabile del settore mini rugby, insieme a uno dei volontari Luca Beretta, il cui figlio gioca nell'Iride "Non è facile portare avanti il discorso rugby in Italia" esordisce Luca "in particolare quest'anno per noi si è verificato un forte calo degli iscritti, dovuto a una serie di sfortunate circostanze. Grazie alla creazione di una franchigia con altre realtà del nostro territorio quali Geas Sesto San Giovanni, Rugby Monza e Mosquitos Rugby Muggiò, riusciamo a garantire a tutti i nostri ragazzi di poter praticare questo sport, formando squadre con gli iscritti di queste società. Ognuno resta tesserato per la propria squadra di appartenenza, ma può giocare per ognuna delle squadre facenti parte della franchigia". "Fino alla categoria under 12" spiega la signora Caprotti "non esistono veri e propri campionati, generalmente ci si accorda con altre società della zona per disputare degli incontri che stimolino una sana competizione nei ragazzi, ma non esiste classifica a fine anno. La cosa più divertente è che anche per i più piccoli il terzo tempo è imprescindibile. Generalmente prepariamo della pasta, sono più che altro i genitori dei bambini a socializzare tra loro durante questo rito, i bimbi restano con i loro rispettivi compagni, ma è normale".
"Il nostro obbiettivo", riprende Luca Beretta, che ci rivela di non aver mai giocato a rugby, ma di essere rimasto affascinato dalla filosofia che accompagna questo sport "non sono i risultati, ma educare i ragazzi attraverso il rugby. Se poi qualcuno diventerà cosi bravo da sfondare e diventare professionista, come ad esempio è stato per Maxim Mbanda, che ha calcato il nostro terreno di gioco, sarà la ciliegina sulla torta del nostro lavoro, ma non è la cosa più importante per noi".
Mentre parliamo termina l'allenamento dei più piccoli, gli under 8, così faccio la conoscenza dei loro educatori, tre giovani dalla faccia pulita e dagli occhi brillanti, innamorati del gioco e consapevoli del ruolo che ricoprono nella vita di questi bimbi. Laura, che non ha mai giocato a rugby ma che è stata coinvolta dalla passione del fratello per questo sport dice "La cosa più bella è accompagnarli nella loro crescita, vederli diventare grandi. Poco a poco diventi un loro amico e ti raccontano tutto quello che gli succede". Poi è la volta di Nadia, che in precedenza era stata una ginnasta, passata poi al rugby che ha dovuto lasciare presto a causa di problemi alla schiena "Non è stato facile decidere di smettere, ma purtroppo i miei problemi fisici non mi hanno permesso di proseguire. Così mi sono messa a disposizione della società per dare una mano. Quest'anno purtroppo abbiamo solo sette bambini, di cui una under 6, ma andiamo avanti con la convinzione di fare qualcosa di importante". Dario, unico uomo del terzetto, oltre a seguire la squadra dei bimbi, gioca in prima squadra. Ci racconta che quando si è presentato al campo per la prima volta era "...Un bambino timido e ciccione. Quando l'allenatore mi vide fece un largo sorriso, aveva trovato qualcuno per fare i placcaggi. La domenica mi riesce difficile seguire i piccoli" continua "perché ho la partita con la prima squadra ma quando è possibile ci sono anche io a bordo campo". Tutti e tre tengono a sottolineare che "Qui prima che a fare meta, insegniamo il rispetto degli avversari, dell'arbitro e delle regole, esaltiamo l'importanza del gruppo, della socialità. Tutto il nostro lavoro si basa sul gioco e sul divertimento, poi viene anche l'aspetto della competizione e della sana rivalità, ma non in primissima battuta, almeno a questa età".
Coach Giuseppe, il primo col fisico da rugbista che vedo nei paraggi, segue invece la squadra under 10 insieme a Filippo. Anche lui tiene a raccontare la propria esperienza coi bambini "Quest'anno abbiamo solo 5 ragazzi, a volte alle partite ci sono più allenatori che giocatori, nonostante questo non ci facciamo scoraggiare. Questa è una età importante, dove puoi cominciare a insegnare anche un po' di tecnica del gioco, se la impari da giovane poi non la dimentichi, è come andare in bicicletta". Poi ci racconta un simpaticissimo aneddoto "Durante una partita, Letizia, la principessa del gruppo, era un po' disparte, un po' intimidita. Poi, dopo aver osservato quanto fossi grosso, mi si è avvicinata chiedendomi se potessi aiutarla a placcare. Stupenda".
Infine è il turno de veri protagonisti, i bambini, che escono dagli spogliatoi alla spicciolata e mi osservano tra il curioso e il perplesso. In qualcuno leggo in faccia anche un po' di delusione, probabilmente appaio come una persona molto comune, lontana dal loro immaginario. Il primo a farsi avanti è il piccolo Simone "Siamo una bella squadra, del rugby mi piace fare meta e giocare bene". Mentre parla si appoggia a Federico, che si morde le unghie nervosamente e che tiene a sottolineare che "Gioco a rugby da quasi quattro anni e due volte ho fatto meta, ma gioco soprattutto per il terzo tempo". "Anche io!" irrompe Luigi, che ha otto anni e gioca a rugby da due. Il ghiaccio è rotto, la timidezza si è dissolta e i bambini cercano di attirare la mia attenzione con gesti plateali e affermazioni più o meno veritiere. E' la volta di Letizia, di cui parlavamo in precedenza, uno scricciolo di soli 6 anni con un viso dolcissimo: "Mi hanno detto che posso invitare le mie amiche a vedermi giocare e io allora le ho invitate". Gli unici due che restano un pochino in disparte sono Luca e Samuele. Il primo, sorriso furbetto che evidenza la mancanza di due dentini, caduti a suo dire proprio mentre giocava, afferma "io sono bravo a fare le finte". Mentre Samuele mi dice semplicemente che gioca rugby "Perché mi piace". Infine ultimo ma non ultimo, esce dallo spogliatoio Alessandro che ama fare i placcaggi e poi si unisce al coro unanime dei compagni "La cosa che mi piace di più però, è il terzo tempo".
Tutto lo sport che seguiamo in televisione, nei palazzetti o negli stadi ha radici in questi luoghi, dove si forgiano sportivi, certo, ma soprattutto si modellano gli uomini e le donne di domani. Luoghi dove far crescere ragazzi sani, non solo fisicamente ma anche nei valori. Dove insegnare regole, insegnare il rispetto, insegnare che nella vita a volte si vince, altre volte si perde. Lo sport tutto è una meravigliosa e incredibile metafora della vita: ogni traguardo, ogni punto, ogni gol o meta rappresenta qualcosa di più alto di quello che sembra. Da adulti più volte ci si trova a doversi ricordare da dove si viene, se vieni da posti simili a questo non parti mai battuto.
