
Non capita tutti i giorni di poter intervistare un campione del mondo: Massimo Brandolini, coach della nazionale italiana di bowling mi ha concesso l'onore di raccontare la storia sua, e quella della sua squadra. Il loro successo sale alla ribalta lo scorso dicembre, quando incredibilmente vincono il campionato del mondo ai danni dei favoritissimi, gli Stati Uniti. Giornali e telegiornali si invaghiscono della loro vicenda, e così raggiungono una popolarità del tutto inaspettata, per loro stessa ammissione.
Buongiorno coach, volevo cominciare chiedendole come si è avvicinato al mondo del bowling?
Mia cugina studiava all’università di Padova e aveva un fidanzato statunitense, con cui sono ancora in ottimi rapporti. Lui giocava a bowling, così quando andavo a trovarli mi prometteva che saremmo andati a fare una partita insieme prima o poi. Il caso volle che questo non successe mai, ma quando si lasciarono mia cugina che intanto terminò gli studi e tornò a casa, mi portò a giocare al bowling di Alessandria. Fu amore a prima vista. Avevo ventisei anni, inizia molto tardi a giocare.
Come si diventa coach della nazionale?
Circa dieci anni fa ci fu l’elezione del consiglio federale che venne soprannominato “La Fenice”, come segno di rinascita del movimento del bowling in Italia. Quando il consiglio insediato si rese conto di quanto fossimo indietro, chiese la collaborazione della federazione Usa per formare dei coach nel nostro paese. Io partecipai a uno di questi corsi, tenuti da Franck Buffa, e ne uscii con dei voti molto alti, insieme ad alcuni altri. L’anno seguente Franck disse alla federazione italiana che era ora di camminare con le proprie gambe, quindi era giunto il momento di nominare il coach tra quelli che avevano superato il corso. Scelsero me.
Quale era l’obiettivo a cui puntavate quando siete partiti per i mondiali?
Chiaramente non pensavamo di vincere, ma entrare nelle prime dieci nazioni al mondo sì, perché sapevamo che valevamo di più del ventiduesimo posto che avevamo ottenuto l’anno prima. Non avevamo fatto le cose che sapevamo fare per una serie di motivi, ma non ci perdemmo in piagnistei, ci rimboccammo le maniche e imparammo da quella esperienza negativa. Siamo ripartiti e dopo un anno di preparazione volevamo proporci come candidati alla top ten mondiale, il che voleva dire essere una delle migliori tre quadre d’Europa. Invece è successo l’impensabile! Abbiamo battuto il Canada in semifinale, che all’inizio ci aveva un po’ sottovalutato, ma ci siamo presi questo vantaggio molto volentieri. Poi abbiamo battuto gli Stati Uniti in finale, che si erano presentati praticamente con un dream team, hanno schierato tutti i loro giocatori migliori. Nonostante questo abbiamo mantenuto la calma, abbiamo continuato a fare il nostro gioco e una volta in vantaggio non abbiamo più sbagliato niente.
Non ha temuto che i ragazzi potessero approcciarsi alla finale già appagati? Era già stato clamoroso il loro percorso in fondo
La sera prima della finale il clima che ci circondava era un po’ quello: tanti messaggi di congratulazioni, pacche, strette di mano, congratulazioni. Persino il mio mentore Frank Buffa cadde in questo errore. Io rispondevo a tutti “Signori, non è ancora finita” e la gente un po’ sogghignava. Ma io avevo il polso della situazione, i ragazzi avevano gioito per quello che avevamo fatto fino a quel momento, ma mai in maniera smisurata. Le energie le stavano conservando per la partita che doveva venire, nessuno faceva discorsi del tipo “siamo entrati nella storia” ma piuttosto “ora abbiamo una finale da giocare”.
In quale momento ha capito che potevate arrivare alla vittoria?
Quando abbiamo vinto la prima partita contro gli Usa. I ragazzi mi guardarono e mi dissero “Hai visto cosa stiamo combinando”? risposi “Si, e allora? siamo 1-0, adesso avete ancora due bocce da tirare”. Al capitano lo dissi, ma solo a lui “Vinciamo 2-0”. Mi bastò guardarli negli occhi per capire che sarebbe andata così.
Mi parli dei ragazzi che hanno portato l’Italia al successo
Prima che atleti, sono persone straordinarie, ognuno ha delle particolarità, nessuno di loro lo si può definire un ragazzo “leggero”. Sono persone che hanno capito, chi prima chi dopo, che la vita non ti regala niente. Partiamo da Marco Reviglio, lui è il capitano, che ha deciso di chiudere la carriera con questo trionfo. Cinquantatré anni, ha portato l’esperienza nel nostro gruppo, un tipo molto tenace, il tipico maschio alfa. Oltre che un leader, un esempio. Poi abbiamo Pierpaolo De Filippi, nella vita fa l’amministratore di condominio, lui è sempre stato un grande talento, ma nel corso della carriera si era un po’ perso perché aveva la tendenza a lamentarsi di qualunque cosa. Per anni non lo scelsi quando selezionavo gli azzurri da portare alle competizioni, e gli spiegavo anche il perché: non vedevo la giusta voglia di fare. Negli ultimi due anni invece ha ascoltato di più e parlato di meno, ha giocato tornei importanti e a seguito della sua maturazione ho visto in lui un elemento che poteva dare sicurezza al gruppo. Si prosegue con Marco Parapini, il figlio d’arte, anche lui aveva rischiato di smarrirsi, ha un carattere particolare, è molto sensibile, chiuso e un po’ scorbutico e per questo non era mai riuscito ad esprimersi al massimo. Per un certo periodo non lo scelsi, poi anche lui è tornato a bordo a seguito di un processo di maturazione. Passiamo a Nicola Pongolini, lui è un ragazzo d’oro, nella vita fa il meccanico. Fa sempre quello che gli dico, io lo chiamo il robottino. Lui è il più freddo di tutti, potrebbe tranquillamente giocare tra i professionisti. Negli ultimi quattro giorni del torneo ha tenuto la media punti più alta di tutti. C’è poi Antonino Fiorentino, lui è quello com più testa, lo stratega del gruppo. Un giocatore molto introverso ma estremamente intelligente, riesce a tenere a memoria il punteggio di venti squadre. Sarà probabilmente il nuovo capitano. Infine c’è Erik Davolio, nella vita fa il panettiere, debuttante in nazionale, un bravo ragazzo, con un senso della nazionalità molto alto. E' entrato nel gruppo in punta di piedi ma con molta energia. Nell’ultimo incontro contro gli Usa ha fatto una partita perfetta.
La vostra storia è salita alla ribalta per due motivi: il primo perché siete diventati campioni del mondo naturalmente, il secondo perché un gruppo di panettieri, meccanici e amministratori ha battuto una squadra di super pagati professionisti. Il più classico dei "Davide contro Golia". Ora che il clamore è cessato, cosa è cambiato per voi e per tutto il movimento?
In questo momento nulla indica che a seguito della nostra vittoria ci sia stata una impennata di seguito o di praticanti. Il Coni ci ha detto che di cercare tra i privati i finanziamenti per sviluppare tutto il movimento bowling in Italia. Di fatto per ora, non è cambiato niente, anzi per gli Europei abbiamo addirittura un budget più basso. L’unico “bonus”, diciamo così, è stata l’iscrizione gratuita alla federazione per quest’anno, per un totale di cinquanta euro a testa.
In una chiacchierata preliminare mi aveva detto che il film “il Grande Lebowski” non centra nulla con la vostra storia, eppure molti hanno fatto questo paragone
Esatto, noi ci dissociamo totalmente da questo parallelismo. In quel film si parla di gente disadattata, spiantata, che vive di espedienti, in pratica racconta una storiaccia. Noi non abbiamo nulla a che vedere con quel genere di persone, così non si dà una bella immagine del nostro sport.
Quali sono i vostri appuntamenti per il 2019?
L’appuntamento è uno fondamentalmente, a giugno c’è il Campionato Europeo. Ci stiamo allenando molto e siamo molto agguerriti, ma al contrario di quello che pensano tutti, non ci sentiamo i favoriti. Sappiamo che ci sono avversari più bravi di noi, e che abbiamo ancora molto da imparare. Dovremo moltiplicare le nostre forze per arrivare a una medaglia.