Marcello Siboni, una vita da gregario:"Mi sento realizzato, ma senza Pantani ho preferito uscire per sempre dal ciclismo".

Marcello Siboni, Roberto Conti, Massimo Podenzana e Fabiano Fontanelli, non sono stati solo ciclisti, non erano solo gregari. Erano la crew del Pirata, gli uomini ombra di Marco Pantani. Per gran parte della loro carriera, il loro compito è stato quello di rimanere accanto a Marco, in gara e anche fuori, quando successivamente il Pirata perse la rotta. Loro erano la spina dorsale della Mercatone Uno, squadra che Romano Cenni e Luciano Pezzi fondarono e cucirono addosso a Pantani. Non c'era spazio per ambizioni altrui, o quasi, perché nel 2000 un Garzelli più in forma del suo capitano, vinse il Giro d'Italia. Fu però una breve parentesi, infatti Garzelli dovette traslocare altrove. Il cuore della Mercatone era Pantani e Marcello Siboni era uno dei bracci armati, ma anche un amico di Marco. Con Marcello abbiamo fatto una lunga chiacchierata sul ciclismo di ieri e di oggi, ma soprattutto sulla sua carriera legata a doppio filo alla vita del Pirata.

Partiamo dalla recente scomparsa di Felice Gimondi, tu lo hai avuto come dirigente alla Mercato uno, che ricordo conservi?

Io ero prima di tutto un suo tifoso. Al ciclismo mi appassionai grazie a Fausto Coppi, di cui purtroppo potei solo leggere sui libri, ma in seguito divenni un grande fan di Felice. Quando Luciano Pezzi, patron della Mercatone Uno, scomparve, la presidenza fu affidata proprio a Gimondi. Lui purtroppo subentrò solo dopo che Marco vinse il Tour de France, quindi in pratica visse in prima persona solo la seconda parte della carriera di Pantani, quella più buia. In ogni caso, con tutto il rispetto per l’uomo, non aveva il carisma per far presa su Pantani come invece riuscì a fare Pezzi e ricordo che in una intervista concessa alla Rai, lo stesso Gimondi si rammaricava di questo.

Rispetto a quando sei diventato professionista, nel 1987, ingaggiato dall’Ariostea, come è cambiato il ciclismo?

Oggi ci sono degli ottimi corridori, ma non vedo fuoriclasse. Non c’è continuità di rendimento, non ci sono elementi che possano fare la differenza, indipendentemente che corrano un giro a tappe, o una classica. Poi con tutti gli aggeggi tecnologici di cui sono dotati sembrano telecomandati, è un ciclismo molto meno fantasioso e romantico. Si è vero, anche noi preparavamo delle tattiche a tavolino, poi magari Marco sorprendeva tutti, anche noi, decidendo di scattare a 60 km dal traguardo. Adesso hanno gregari che per decine di chilometri possono tenere la stessa andatura in salita e se i big scattano, lo fanno a uno o due chilometri dall’arrivo. Quando scattano a cinque chilometri dal traguardo è praticamente una fuga! Ai nostri tempi il direttore sportivo era un ex corridore che ti dava qualche consiglio e guidava l’ammiraglia, niente più di questo. Oggi tengono le corse troppo bloccate. All’Ariostea avevo Ferretti, il sergente di ferro, che anche negli allenamenti ci chiedeva di improvvisare, perché la corsa è improvvisazione. Era un altro ciclismo, secondo me migliore rispetto ad oggi.

A metà degli anni 90 passi alla Carrera, storica formazione di quei tempi, lì conosci Marco Pantani

Le due stagioni precedenti erano state problematiche per me, avevo avuto un incidente nel 1991 da cui non riuscivo a riprendermi completamente, avevo spesso dolore alla schiena. Io e Marco comunque ci conoscevamo già, fu proprio lui a volermi alla Carrera. Da ragazzi ci allenavamo spesso insieme, lui era di Cesenatico, io di Cesena, quindi abitavamo molto vicini. Il nostro punto di ritrovo era Savignano sul Rubicone, la nostra amicizia è nata praticamente sulle strade, in bicicletta.

Alla Carrera c'erano Chiappucci e Pantani, una poltrona per due....

In realtà era una rivalità un po’ studiata. Certo, erano due galli nello stesso pollaio, è normale che un po’ di divisione ci fosse, ma all’interno della squadra non si avvertiva vero e proprio dualismo. Serviva più che altro ai due per nascondersi un po’ e faceva comodo ai giornali che avevano qualcosa in più da scrivere.

Successivamente gran parte dei componenti della Carrera passarono alla Mercatone Uno, compresi tu e Marco

In realtà la Carrera si divise in due parti. Un blocco con in testa Pantani, che quando firmò il contratto non era ancora tornato in bicicletta dopo l’incidente di due anni prima alla Milano-Torino, passò alla Mercatone uno. L’altra metà, che faceva capo a Claudio Chiappucci, rimase alla Carrera, che cambiò nome e divenne Asics. La Mercatone Uno, nata dal sodalizio tra Romano Cenni e Luciano Pezzi, fu davvero una bella avventura. La presenza di noi romagnoli nella squadra era preponderante, ma anche chi non era delle nostre parti, i giovani, i nuovi innesti si sentivano a casa, come in una famiglia, non c’erano divisioni tra di noi.

Il direttore Sportivo della Mercatone Uno era Giuseppe Martinelli, che con Marco ebbe un rapporto un po’ conflittuale, è corretto?

Si, soprattutto dopo la morte di Pezzi, quando la situazione sfuggì un po’ di mano. Martinelli era ambizioso, mentre con Marco in squadra dovevi pensare più che altro a guidare l’ammiraglia.

In quegli anni, contemporaneamente al cambio di casacca, Marco Pantani divenne “il Pirata”. Come nasce la sua leggenda?

I francesi lo avevano soprannominato “Dumbo”, ma a lui non piaceva affatto. Essendo nato e vissuto in una città di mare, gli venne l’dea di soprannominarsi “il Pirata” e noi eravamo la sua ciurma. Non ci fu, credo, scelta più azzeccata, era proprio il suo soprannome quello.

Nel 1998 Marco vince il Giro d’Italia, ma il favorito era Alex Zulle

Nel 1998 l’aria all’interno della squadra era frizzante. C’era la sensazione in tutti noi che potesse essere l’anno buono per Marco. Aveva terminato la stagione precedente senza infortuni e quindi la preparazione fu eseguita alla perfezione. Inutile negarlo, partivamo per fare delle grandi cose al Giro d’Italia. Zulle andava bene in salita e a cronometro, che tra l’altro a quei tempi erano molto lunghe, gli specialisti facevano parecchio distacco. C’era però molta positività intorno a noi, eravamo consapevoli di essere della partita per la vittoria finale. E sono convinto che se nel 1997 Marco non fosse caduto, a causa del gatto che attraversò la strada, avrebbe vinto già quell’anno.

Già, nel 1997 ci fu la caduta nella discesa del valico del Chiunzi: in quell’occasione forse non si ritirò un po’ frettolosamente?

No, non era proprio possibile continuare, aveva un vasto ematoma sulla coscia che gli faceva male, non permettendogli di spingere sui pedali. Se fosse ripartito il giorno seguente la caduta, si sarebbe comunque ritirato dopo pochi chilometri, ne sono convinto.

Ti disse qualcosa Marco, dopo aver vinto il Giro del 98?

Non ricordo una frase particolare ma mi ricordo la sua felicità. Quando vinceva era come un bambino a cui avevano regalato un chilo di caramelle.

Pantani non avrebbe voluto partecipare al Tour in quello stesso anno, poi la scomparsa di Luciano Pezzi lo convinse a prendere il via, almeno così si è sempre detto, è vera questa storia?

É assolutamente vera. Dopo la vittoria al Giro lui aveva smesso di allenarsi, non aveva intenzione di partecipare al Tour de France quell’anno. Si era tolto un peso enorme dalle spalle, se si considera che solo due anni prima era immobilizzato con un ferro nella gamba. Quindi si dedicava molto al divertimento in quel periodo e voleva godersela un po'. Pezzi invece teneva molto che lui partecipasse al Tour, così quando proprio in quei giorni venne a mancare, Pantani decise di prendere il via, per onorare la memoria di Luciano.

Con queste premesse, fu ancora più sorprendente il suo successo finale al Tour de France. Come si trasformava Marco, tappa dopo tappa?

Io purtroppo non c’ero quell’anno, perché caddi al campionato italiano, che si disputò una settima prima della partenza per il Tour. Però ricordo che le prime tappe le subì molto, al cronoprologo arrivò quartultimo. Poi iniziò a carburare e non ci fu più storia. Prese la maglia gialla attaccando sul Galibier a circa 40 km dal traguardo, staccando di più di otto minuti Ullrich, che fino a quel momento era in maglia gialla e stava dominando.

Cosa è scattato nella testa del Pirata secondo te? decide di partecipare all’ultimo momento, dichiarando di non avere ambizioni di vittoria, e poi invece conquista la maglia gialla…

Secondo me Marco si stava un po’ nascondendo, uno come lui non sarebbe mai andato a un grande giro a tappe solo per partecipare. Non dico che fosse convinto di vincere, ma lui non partiva mai solo per fare numero.

Dopo il successo al Giro e al Tour Marco Pantani non era più solo un ciclista, uno sportivo, era un personaggio mitologico. Muoveva folle oceaniche come si vede fare nel calcio, o ai concerti. Ricordi la festa che si fece per lui a Cesenatico?

Eccome se la ricordo. Io, Fontanelli e Gimondi eravamo nella stessa macchina, parcheggiammo vicino al palco e c’erano i vigili che facevano fatica a contenere quella marea umana. Ricordo che Gimondi disse: “io una cosa così non l’ho mai vista”. C’era gente a perdita d’occhio.

Tutta quella notorietà cambiò Marco?

No, lui rimase sempre lo stesso, lo testimonia anche il fatto che visse sempre a Cesenatico. La notorietà gli montò sopra, divenne più grande di lui stesso, ma la gente che lo conosceva lo può testimoniare, non era cambiato. Infatti era fuori da Cesenatico che nascevano diciamo, i problemi, perché non potevi camminare se c’era Marco in giro, mentre gli abitanti del suo paese erano abituati a vederlo.

Giro d'Italia del 99: Marco guidava agevolmente la classifica a due tappe dalla fine, poi ci fu la mattina di Madonna di Campiglio. Tu cosa pensi sia successo realmente quel giorno?

Faccio fatica a parlarne, per me era già tutto pianificato da qualcuno di importante, che non so dire chi sia. Posso mettere la mano sul fuoco che lui non sbagliò in quell’occasione, anche perché a un certo punto, come successe ad Armstrong, crolli e ammetti di aver preso qualcosa, quantomeno lo confidi a qualcuno, in privato. Lui fu sempre irremovibile su questo punto. Se fosse stato beccato con l’ematocrito fuori norma e fosse stato colpevole, si sarebbe fatto i suoi quindici giorni di stop, poi avrebbe rifatto il test a Losanna e la sua carriera sarebbe ripartita, come era successo ad altri prima di lui. La persecuzione nei suoi confronti, che si ostinava a proclamarsi innocente, fu rabbiosa. Ricordo anche che qualcuno gli consigliò: “Ammetti di aver preso qualche sostanza, così finalmente ti lasceranno in pace”.

Tra le varie ipotesi che sono state formulate, ci fu anche quella secondo cui un Marco cannibale, che si aggiudicava tappe che avrebbe potuto lasciare ad alcuni comprimari, non piaceva al gruppo. Avvertivate questa ostilità?

Non avvertii ostilità in gruppo nei confronti della condotta di corsa di Marco. Quell’anno lui era di un’altra dimensione, troppo più forte di tutti, le vittorie arrivavano quasi da sole. Vinceva sul suo terreno, la salita, non andava a fare le volate in pianura. Se qualcuno fosse arrivato al traguardo assieme a lui, probabilmente sì, avrebbe ceduto la vittoria, ma arrivava in cima sempre in solitudine, a chi avrebbe dovuto cedere il successo di tappa? Se ci fu un problema tra il gruppo e la Mercatone fu a causa delle invidie tra direttori sportivi, alcuni atteggiamenti indispettirono le altre squadre.

Il Giro poi lo vinse Gotti, ti ha mai detto qualcosa a proposito di quella sua vittoria a tavolino?

Sì, parlai con Ivan già il giorno successivo alla fine del Giro d'Italia, al circuito di Bologna. Mi si avvicinò lasciandomi il suo numero di telefono, chiedendomi di darlo a Marco, sentiva l’esigenza di parlare con lui e spiegargli che quel Giro non lo sentiva suo, anche se ne era il vincitore. Fu molto gentile e corretto. Credo che anche per Gotti il Giro del 99 sia un grosso peso, secondo me se fosse arrivato secondo dietro Pantani sarebbe stato più contento, forse anche più della vittoria di due anni prima.

Gli ultimi bagliori del Pirata si ebbero al Tour del 2000, nei duelli contro Armstrong.

A quel Tour arrivò al settanta percento della forma, non di più. Se fosse stato al massimo, sarebbe stato un bellissimo duello con Armstrong. Andava un po’ a corrente alternata, un po’ bene e un po’ male, ma comunque riuscì a cogliere due vittorie di tappa. La prima, sul Mont Ventoux: prima si staccò all’inizio della salita, poi piano piano risalì e arrivò al traguardo col texano, che poi non fece la volata. Questo a Marco non piacque, la considerò una mancanza di rispetto, anche perché Armstrong dichiarò apertamente di avergli lasciato la vittoria. Così quando lo staccò, a Courchevel, in quella che è stata l’ultima vittoria della sua carriera, era felicissimo. Si esaltò così tanto che due giorni dopo tentò un attacco da lontanissimo, a più di centro chilometri dal traguardo, ma si alimentò male e andò in dissenteria, così fu ripreso dal gruppo e sulla salita finale si staccò. Lo portammo al traguardo a fatica, credo fu l’unica volta in cui andavo più forte di Marco in salita.

Da quel momento in poi il vero Marco Pantani, non l’abbiamo più visto

Purtroppo è così, lo vedevi dallo sguardo che era cambiato. Si portava dietro un macigno che più rotolava, più si faceva enorme. Era diventato molto fragile, bastava una sciocchezza per dargli un dispiacere enorme. Inoltre fece nuove amicizie, purtroppo sbagliate, così che per noi era diventato davvero difficile stargli vicino, per quanto comunque ci provassimo. Aveva perso lucidità, eravamo diventati gli amici da cui stare alla larga e potemmo fare ben poco. Più il tempo passava, più Marco si perdeva, anche se non mi sarei mai aspettato che sarebbe finita così male.

Come è cambiata la tua vita, in seguito alla sua scomparsa?

Mi ritirai a metà del 2002, lui non la prese benissimo. Ci eravamo ripromessi di smettere insieme di correre e restare nel mondo del ciclismo, avevamo alcuni progetti. Io però avevo 37 anni e sentivo di aver dato tutto quello che avevo da dare. Quando un anno e mezzo dopo lui morì, decisi di chiudere definitivamente col professionismo e poco tempo dopo aprii una piccola attività, la Cicli Siboni a Cesena, dove faccio un po’ di vendita e riparazioni.

Come consideri la tua carriera?

Lunga, senza dubbio. Correre alla Mercatone Uno a fianco di Pantani ha allungato la carriera di molti di noi. Sapevamo qual era il nostro ruolo all’interno della squadra, chi veniva con ambizioni personali durava poco. Ammetto che mi dispiace non aver colto mai una vittoria, ma alla fine non avrebbe dato un significato diverso alla mia carriera. Conoscevo benissimo le mie caratteristiche, lo stesso Ferretti mi “battezzò” subito: “Sarai un ottimo corridore, ma non un vincente. Sarai un gran gregario”. Avevo capito subito quale sarebbe stato il mio status. Mi sento un gregario realizzato.