
Avviso ai lettori: questo non sarà un noiosissimo articolo sulle migliori scarpe in commercio per chi come me soffre di pronazione, del livello di comfort, di considerazioni sul drop (ma cosa diavolo è il drop?) o sulla reattività della scarpa che ho in uso in questo momento.
No, questo è il racconto di una storia d’amore che si tramanda dal mio primo paio di scarpe da corsa, fino a quello attuale, come un amore che si trasmette con un filo continuo di generazione in generazione. Un amore ruvido, come ti permetti di essere solo con chi ami davvero. Si perché non nonostante le maltratti, con la mia corsa rigida e coi mie piedi proni, le amo e le rispetto come l’unica cosa veramente importante, quando affronto la strada, le uniche a cui concedo di farmi compagnia in quel viaggio intimo e introspettivo che è la corsa. Ti proteggono, con quel loro sottile strato di gomma e schiuma, l’unico intercapedine possibile tra il tuoi piedi e l’asfalto.
Non mi hanno mai deluso le mie scarpe, e io ho cercato di non deludere loro. Non le ho mai mandate in pensione prima che potessi legare a ogni paio un ricordo indelebile. L’intenzione, quando cominciai a gareggiare, era di conservarle tutte, come faccio coi pettorali. Poi a causa del mio disordine patologico, e di un paio di traslochi, alcune si sono perse. Comunque le ricordo tutte, indelebili nella mia mente come l’esperienza che evocano
Ricordo le Nike con cui conclusi la mia prima mezza maratona, la Stramilano del 2010. Ricordo le Asics che mi accompagnarono al traguardo della mia prima maratona, a Reggio Emilia nel 2012. Come non citare poi quelle che mi accompagnarono a correre a New York la prima volta, nella mezza maratona nel 2013, e quelle che quattro anni dopo, ebbero il più gravoso compito di guidarmi fino al traguardo di Central Park, della maratona. Per non parlare delle reginette, quelle che ebbero il meglio di me, a livello sportivo, nel 2015: prima mi fecero volare alla Maratona di Roma, dove stabilii il mio tuttora imbattuto personale, e poi a farmi emozionare fino alle lacrime quando un mese dopo tagliai la finish line della Maratona di Boston.
Ci sono state anche quelle il cui amore è stato travagliato, a causa di un incidente che mi ha reso il ritorno alla corsa molto complicato; ma anche in quel caso, le dismisi solo dopo aver ottenuto il mio personale sulla mezza, alle Due Perle. Era un paio di arancionissime Brooks. O come quelle che nel 2016 a causa di uno stato depressivo utilizzai pochissimo, ma che a proprio in extremis, senza praticamente allenamento mi supportarono nel calvario che mi condusse da Maratona alla stadio olimpico di Atene.
Infine ci sono le mie attuali Nimbus, che domenica alla Maratona di Siviglia indosserò per l’ultima volta. Anche loro, proprio a fine vita, saranno il mio segnalibro nel momento in cui varcherò la linea d’arrivo. Nell’ultimo pezzo di vita che faremo insieme saranno le mie uniche compagne di viaggio, in un viaggio in solitario dentro me stesso.
Il resto fa parte della vita.