Le idi di maggio degli invincibili: il Grande Torino e Ayrton Senna

Un muro e una collina. Un pilota di formula 1 e una squadra di calcio. Ayrton Senna e il Grande Torino. Due epoche, il medesimo destino. Erano icone che simboleggiavano il riscatto sociale per due popoli, quello italiano e quello brasiliano, che seppur in momenti diversi, tentavano faticosamente di trascinarsi fuori dalla miseria, dalla povertà non solo economica ma anche culturale. Esploratori, conquistatori, eroi. Cacciatori di vittorie più per la propria nazione, che per sé stessi. Chissà che peso deve essere stato per coloro che dovevano apparire imbattibili, essere ambasciatori di persone che come ragione di vita, non avevano altro che i loro successi. In fondo, se ci si ferma un attimo a pensare, fuori da un abitacolo o da rettangolo di gioco, altri non erano che uomini, esattamente come tutti gli altri.

Si narra che nel 1948 Gino Bartali vincendo il Tour de France di ciclismo abbia accentrato su di sé l'attenzione di tutta l'Italia, placando i moti rivoltosi che sarebbero potuti sfociare in una guerra civile. Un anno dopo il testimone passa nella mani del Torino, che ha vinto tutti i campionati di calcio del dopoguerra e che compone la Nazionale per dieci undicesimi. Avrà il compito di fungere da collante ai Mondiali del 1950, dove la squadra granata, vestita di azzurro, è tra le favorite alla vittoria finale. Si spera che da nord a sud la gente si raduni intorno a una radio, accompagnando la selezione azzurra verso il trionfo. Ogni cosa, anche la più insignificante, sembra lastricare la via che porta a un destino ineluttabile, già scritto nelle stelle, a una vittoria finale che non può sfuggire alla logica. Fino al 4 maggio 1949.

Il Torino, che si avvia a quinto successo consecutivo in campionato, è reduce da una amichevole a Lisbona contro il Benfica. Un omaggio al capitano dei lusitani Chico Ferreira, una vera e propria esibizione, una passerella, niente più di questo. Sull'aereo che sta facendo ritorno a Torino quel pomeriggio ci sono oltre ai dirigenti, massaggiatori, tecnici e giornalisti al seguito, i giocatori Valentino Mazzola, Bacigalupo, Rigamonti, Ossola, Gabetto, Menti, i fratelli Ballarin, Grezar, Castigliano, Loik, Gabetto, Grava, Maroso, Martelli, Operto, Schubert, Fadini e Bongiorni. Sono circa la 17, l'aereo sta sorvolando la costa ligure e vira verso il capoluogo sabaudo. Nei pressi di Superga, collina del torinese in cima alla quale è situato un santuario, la visibilità è ostacolata da una fitta nebbia. Il colle svetta per 600 mt sopra il livello del mare, mantenendo la giusta rotta e  la corretta altitudine, seppur in fase di atterraggio e con la visibilità pressoché azzerata, il velivolo dovrebbe superare agevolmente l'ostacolo dirigendo verso ovest e quindi verso l'aeroporto, volando a circa 2000 mt di altezza, ben 1400 mt più in alto della cima della collina stessa. Da qui entrano in gioco la sfortuna e forse anche un po' la narrativa: si dice che un vento di libeccio abbia portato fuori rotta l'aereo e che a causa della scarsa visibilità il pilota non si sia accorto di nulla. Di più, sembra che l'altimetro si fosse rotto e che continuasse a indicare i fatidici 2000 mt di altezza, invece dei 600 a cui effettivamente volava l'apparecchio. Credo che non sapremo mai se vi fu una incredibile concomitanza di sfortunate coincidenze, o se si sia trattato di un banale quanto drammatico errore umano. Sta di fatto che le vite di tutte quelle persone, impattando contro la collina di Superga, ai piedi di quel santuario, sono diventate coriandoli d'anime.

Così, il 4 maggio 1949 la nebbia inghiotte per sempre la squadra più forte dell'epoca, restituendola al mondo immortale e leggendaria. Cosa è successo davvero all'aereo ha importanza solo da un punto di vista giuridico, stabilire la verità non cambierà il destino dei caduti. Lo strazio di riconoscere i resti mortali del Grande Torino tocca a l'unico che li conosce tutti, e bene: l'ex commissario tecnico azzurro, Vittorio Pozzo. Pozzo, divenuto giornalista, non è su quel volo solo perché il giornale per cui lavora, "La Stampa", ha deciso di inviare un altro collega, Luigi Cavallero, al seguito della squadra granata. È uno dei primi a giungere sul luogo della sciagura. Chissà con quale pena si deve essere arrampicato in cima alla collina, combattuto tra il dolore di aver perso amici e colleghi e l'umana colpevole felicità dell'essere vivo. Scriverà: "Il Torino non c'è più. È morto in azione. Tornava da una delle sue solite spedizioni all'estero, dove si era recato in rappresentanza dello sport italiano". La Settimana Incom, che altro non è che il cinegiornale dell'Istituto Luce, sopravvissuto al fascismo e ribattezzato, aprirà così il notiziario:"Un crepuscolo durato tutto il giorno, una malinconia da morire. Il cielo si sfaldava in nebbia e la nebbia cancellava Superga". E il Torino.

Per i funerali del 6 maggio la giornata è piovosa. La tristezza e la malinconia sprigionate dai fotogrammi delle immagini di allora, giunte ai giorni nostri, inducono a credere che quel pomeriggio la realtà fosse in bianco nero. Grigia era la giornata, grigia era Torino, grigie le persone, gli edifici, le parole sussurrate per non disturbare i morti, le lacrime. Grigie le anime di chi rimane. Giungono da ogni parte d'Italia per rendere omaggio al Toro, e con ogni mezzo possibile. Alla fine se ne conteranno, secondo le autorità 600.000. Vi sono giocatori di Serie A, industriali, tifosi, appassionati, semplici cittadini e operai, che chiedono e ottengono il permesso di uscire anticipatamente dalle fabbriche. Chiunque sappia cosa rappresentasse per il Paese quell'undici, vuole partecipare alle esequie. Probabilmente pensano che se ogni italiano prende per sé un lembo di quel dolore. la tragedia per i torinesi sarà più sopportabile. Da Palazzo Madama parte un corteo di autocarri che trasportano le bare con all'interno ciò che resta del Grande Torino. Il corteo è accompagnato per mano dalla gente che muove ai suoi lati, chi a piedi, chi in bicicletta. Piovono fiori come fiocchi di neve sui feretri, scivolano per gran parte sull'asfalto, tracciando idealmente il percorso compiuto dal Torino, nel suo ultimo viaggio. Quello stesso giorno la Federcalcio proclama i granata Campioni d'Italia.

I Mondiali di Calcio Brasile 1950 li vincerà l'Uruguay, in quelli che saranno gli ultimi vagiti una grande squadra. Una edizione davvero singolare quella del 50. L'unica in cui non si sia disputata una vera e propria finale. Ai padroni di casa, fino ad allora completamente assenti dai radar del grande calcio, basterebbe un pareggio nell'ultimo incontro proprio contro l'Uruguay per laurearsi campioni del mondo. Nella partita che divenne celebre come il Maracanazo, i verdeoro che in realtà allora giocavano in biancoblu, anziché conservare l'1-1, risultato che li consacrerebbe sul trono mondiale, si fanno prendere dalla smania di vincere, finendo così per subire una sconfitta drammatica. Tra i tifosi si verificheranno decessi dovuti a malori improvvisi, e persino suicidi. Si rifaranno otto anni più tardi, in Svezia, nella sorpresa generale, con una squadra giovane e ricca di talento, tra i quali il diciottenne Pelè. La Nazionale italiana nel 1950 si presenta al via della competizione iridata da campione in carica, ma priva dei giocatori del Torino. È una squadra rabberciata, ed esce presto dal torneo. Inoltre, spaventati dalla tragedia di Superga gli azzurri raggiungeranno il Brasile in nave, con un massacrante viaggio di 3 settimane, svolgendo improbabili sessioni di allenamento sul ponte e omaggiando le maree con una notevole quantità di palloni.

Già, i mondiali di calcio. Questa volta quelli di Usa 94. Di nuovo l'Italia. Di nuovo il Brasile. Stadio Rose Bowl, Pasadena. La finale tra gli azzurri e i verdeoro si decide ai calci di rigore, dopo che per 120 minuti le due squadre hanno più che altro badato a non farsi male. L'epilogo della partita lo scrive Roberto Baggio, che con un destraccio che non gli appartiene scaraventa il suo tiro oltre la traversa della porta difesa da Taffarel. Ci sarebbe ancora un penalty per il Brasile ma è del tutto ininfluente, la squadra di Parreira è per la quarta volta campione del mondo. I giocatori della Selecao a questo punto esultano in maniera singolare. Aprono le braccia e corrono formando un semicerchio, sembra più la virata di un aereo, ma in realtà tentano di imitare una curva percorsa da un'auto. Poi, srotolano tirandolo fuori da chissà dove un striscione che recita "Ayrton aceleramos juntos, o tetra è nosso". Ayrton acceleriamo insieme, il quarto titolo è nostro.

Ayrton, non è altri che Ayrton Senna Da Silva. Nel 1994 il campione brasiliano ha 34 anni, certamente non è più un puledrino, eppure la sua carriera non sembra affatto volgere al termine. È stato 3 volte campione del mondo di Formula 1, nel 1988, nel 1990 e nel 1991, sta inseguendo il quarto alloro ed è senza ombra di dubbio ancora l'uomo da battere. Purtroppo per lui, l'inglese Mansell nel 1992 e il suo acerrimo nemico Prost nel 1993, sono alla guida di una vettura di gran lunga superiore alle altre: la Williams-Renault. Quindi dopo due anni costretto all'angolo, decide di entrare in azione tra le quinte de Circus e con una abilità diplomatica che era stata fino ad allora il suo punto debole, riesce a soffiare il sedile della Williams ad Alain Prost. Il francese in realtà avrebbe un altro anno di contratto con la scuderia inglese, ma non vuole saperne di avere di nuovo a che fare col brasiliano, dopo essere stati compagni di squadra ma da separati in casa, per 2 anni, alla McLaren, nel 1988 e nel 1989. Decide quindi di ritirarsi. La stessa identica dinamica svoltasi un anno prima tra Prost e Mansell. Così l'inverno che precede l'inizio della stagione di Formula 1 del 1994, vede ai nastri di partenza il pilota migliore in sella alla monoposto migliore, e con gli ultimi 2 campioni del mondo a casa a godersi la pensione. Sembra tutto già scritto, tutto pianificato, non si capisce chi o cosa possa dare fastidio a Senna e porsi come ostacolo tra lui e il quarto titolo iridato. O tetra.

Mark Twain disse che l'unica differenza tra la realtà e la fantasia, è che la fantasia deve essere credibile. Ed è così anche questa volta. Visto che neanche nelle fantasie più fervide nessuno riesce ad immaginare un ostacolo sulla strada di Senna verso il titolo, la realtà si premura di porne 2. Il primo, è un manico teutonico di soli 25 anni che sembra riuscire a far volare la sua Benetton motorizzata Ford: il suo nome è Michael Schumacher. La Benetton è una buona macchina ma il v8 Ford è vecchio e poco potente, rispetto al v10 Renault che equipaggia la Williams. Il propulsore francese è una meraviglia di ingegneria dell'epoca, pare alimentato a energia nucleare. Sembra poterti portare sulla luna. Il secondo ostacolo per Senna...è la Williams stessa. Ayrton non ha feeling con la sua monoposto, è scorbutica, fatica a tenerla in traiettoria e quando prova a portarla al limite spesso finisce fuori pista, durante i test invernali. Inoltre c'è un problema allo sterzo che non si riesce a risolvere. Le prime due gare del campionato le vince Schumacher, Senna colleziona addirittura due ritiri. Arriva al terzo appuntamento del mondiale, in Italia al Gran Premio di Imola, da cacciatore anziché da lepre.

Il pomeriggio di domenica primo maggio 1994, è l'atto finale di un week end di corse sciagurato. Venerdì il connazionale di Senna, Rubens Barrichello, ha un tremendo incidente in pista, salva la pelle ma non può prendere parte alla gara. Il sabato muore l'austriaco Roland Ratzenberger. Erano 10 anni che non verificava una tragedia simile in Formula 1. Così, a causa di questi drammatici eventi Senna passa una notte turbolenta, tra sabato e domenica. Chi lo conosce bene lo descrive come profondamente e visibilmente turbato da quanto è successo a Imola in quei giorni. Inoltre è turbato dal fatto di non riuscire a trovare il giusto feeling con la sua vettura, e secondo quanto racconta il giornalista Giorgio Terruzzi nel suo libro "Suite200" dalla visita del fratello, che alquanto intempestivamente gli recapita un nastro con incisa la voce della donna di cui Ayrton è innamorato. Quella donna non piace al padre di Senna, che essendo un uomo molto potente in Brasile ha fatto intercettare le telefonate della ragazza. Cosa ci sia su quel nastro non è dato saperlo, ma è plausibile intuire che vi sia la prova di un tradimento. Sta di fatto che l'uomo che domenica giunge al circuito di buon mattino, non è il solito Ayrton, non è il freddo e concentratissimo professionista che tutti conoscono, l'implacabile cannibale di vittorie capace di spingersi oltre ogni limite umano e tecnico. Sid Watkins, responsabile medico della Formula 1 e grande amico del brasiliano, quella domenica non lo riconosce. Non ha davanti a sé un uomo risoluto, come si immaginiamo siano i piloti, ma un ragazzo smarrito nei sui pensieri, forse persino preda di cattivi presagi. Watkins intuisce al volo che il grande pilota probabilmente si è già inconsapevolmente dissolto, perso nelle sue nebbie e nell'incertezza. Tenta allora di andare in soccorso dell'uomo: "Ayrton molla tutto, andiamo insieme a pescare". Riceve in risposta un frase laconica:" Ora non posso". Non risponde con una frase tipo "Cosa stai dicendo?", oppure "Che ti salta in mente?", o ancora "Neanche per sogno". No, lui risponde "Ora non posso". Mette i brividi pensandoci ora.

L'ultima immagine di Senna ancora in vita, è a disposizione di tutti, basta fare una ricerca in internet. È ritratto all'interno della sua Williams, in pole position sulla griglia di partenza, col casco poggiato sul cockpit davanti a sé e senza sottocasco. Non hai mai fatto una cosa simile, in tutta la sua carriera. Quella fotografia è l'immagine di un uomo trasfigurato. Sembra quasi in attesa di compiere il proprio destino, intento a fare gli ultimi bilanci della sua vita prima di andare incontro a Dio. Ayrton infatti era molto credente. O forse chi lo sa, è intento a chiedere perdono, per sé o per qualcun altro. Certamente non sembra un pilota. Pochi minuti più tardi, mentre conduce la sua auto in testa alla corsa, esce di pista alla curva del Tamburello, una delle più veloci e pericolose della Formula 1. Il piantone dello sterzo che era stato modificato per risolvere quei problemi che si erano presentati durante i test, si spacca, la Williams senza controllo si stampa sul muro di contenimento. La carrozzeria della monoposto finisce in mille pezzi, ma l'abitacolo regge. Purtroppo però, come nel caso del Grande Torino, il destino bara e vince la partita: il braccetto della sospensione destra a seguito del violento urto si stacca, buca la visiera del casco e procura ad Ayrton un grave trauma cranico che da lì a qualche ora lo condurrà alla morte, in un letto dell'ospedale di Bologna. L'autopsia non rileverà altre fratture o ferite sul suo corpo, molti si dicono certi che senza la sfortunata incursione nel casco da parte della sospensione, sarebbe uscito dall'abitacolo sulle proprie gambe. Ma in fondo, non sono sfortunate tutte le dinamiche che causano una morte fortuita e violenta?

L'aereo con a bordo la salma di Senna atterra all'aeroporto di San Paolo 4 giorni dopo il suo decesso, il 5 maggio 1994. Gli vengono tributati onori militari dopo lo sbarco, quindi la bara viene issata su un camion dei pompieri e coperta con la bandiera brasiliana. La giornata è soleggiata, il tempo è splendido come solo in Brasile può esserlo, ma non sei davvero certo che sia giusto così, in una mattina di tale tristezza. Il corteo inizia il suo calvario per le strade della città paulista, mentre le persone accorse da ogni angolo dello Stato attendono con disperazione di porgere l'ultimo, estremo saluto al loro fratello Ayrton. Accompagnano il feretro ai lati della strada proprio come fecero gli italiani per il Grande Torino, molti anni prima. È impressionante vedere un milione di brasiliani ondeggiare all'unisono, in quella che sembra una tristissima samba collettiva. Per tutti loro è un nuovo "Maracanazo", con la morte di Senna la gente è stata nuovamente privata della speranza. Non puoi capire fino in fondo il Brasile se non sei brasiliano. Se sei povero, non hai nulla, vivi alla giornata e letteralmente non sai cosa farai domani, né se ci sarai , devi poter vivere la vita con passione, aggrapparti a cose che razionalmente sembrano futili per avere una ragione d'esistere. Avere qualcosa che è tuo almeno per un pezzetto, è come possedere la tessera di un puzzle: da sola non significa nulla, ma nell'insieme è indispensabile per completare il quadro. Per quella gente è un po' come celebrare il loro stesso funerale: "se muoiono anche i supereroi, che ne sarà di noi?" stanno probabilmente pensando in molti. Il feretro arriva in chiesa, dove attenderlo c'è la famiglia di Ayrton, insieme ad autorità, amici e soprattutto colleghi. Tra i presenti si posso scorgere Franck Williams, Ron Dennis, Damon Hill, Emerson Fittipaldi, Michele Alboreto, Gerard Berger, Rubens Barrichello e... Alain Prost. Ebbene sì, anche il pilota francese è lì in suo onore. Prost non si limita a presenziare, è tra le persone  che portano a spalla la bara fuori dalla chiesa, per quello che sarà il suo ultimo, altissimo omaggio al compagno-rivale. Quattro giorni prima, il giorno del Gran Premio di Imola, Prost era in cabina di commento per la tv francese. Durante il giro di ricognizione, è previsto che Senna dal suo abitacolo si colleghi con la tv transalpina per un breve commento. Il pilota brasiliano pronuncia una frase sorprendente, che sarà il suo testamento offerto al mondo:"Ciao Alain, mi manchi". Proprio come fanno tutte le persone che stanno per lasciare la vita terrena , ha voluto sistemare tutti i suoi sospesi, compreso quello con Prost.