
A 27 anni viveva in una delle più belle città al mondo, Firenze, e aveva un lavoro "sicuro" come si diceva un tempo, in una grossa compagnia assicurativa italiana. A quei tempi entrava in ufficio alle 7,40 e vi usciva alle 14 così restava tutto il pomeriggio per coltivare la sua passione per il giornalismo, lavorando in radio e per alcuni giornali locali, tra i quali "Calcio più", che gli permise di diventare pubblicista. Ma non gli bastava. A quell'età tirare per la giacchetta un sogno è una tentazione forte, ma forse anche un dovere verso sé stessi. È stato così, dando un morso alla mela delle opportunità, che se non arrivano te le devi creare, che ha deciso di partire."Ero talmente scontento del mio lavoro che decisi di partire per gli Stati Uniti". Lì ha cominciato a studiare l'inglese, mantenendosi con dei lavoretti saltuari, dapprima in Colorado poi a New York, dove trovò un lavoro stabile presso una emittente radio in lingua italiana, "Radio 1 New York". Da qui prese il via la seconda vita di Massimo Lopes Pegna (Nella foto insieme a Muhammad Alì), prestigiosa firma della Gazzetta dello sport, per molti anni corrispondente dagli Usa.
Allora Massimo, era a New York e lavorava in radio, poi cosa accadde?
Grazie a un amico, Marco Montanari, che lavorava per il "Guerin Sportivo" iniziai a fare le prime corrispondenze dagli Usa. In seguito ebbi l'occasione di intervistare Rino Tommasi, al quale chiesi a quale testata potesse servire un corrispondente. Mi disse che la Gazzetta era scoperta in quel ruolo, così mi mise in contatto con l'allora direttore, Candido Cannavò. Cominciai così, da collaboratore esterno. Poi nel giro di poco tempo furono assegnati agli Stati Uniti i Mondiali di calcio del 1994, nonché le Olimpiadi del 1996. Ciò mi permise di essere assunto in Gazzetta nel febbraio 1991. Nella vita ci vuole anche un po' di fortuna, ma se non compri mai il biglietto è impossibile vincere.
Quali sono le tre partite a cui ha assistito che considera indimenticabili?
Il mio primo Super Bowl, nel 1989 tra San Francisco e Cincinnati, in una Miami decadente, molto diversa da quella odierna. Poi l'All Star Game del 1992 a cui prese parte Magic Johnson, nonostante si fosse ritirato per positività all'HIV. Ricordo che stavo seguendo il processo a Mike Tyson, e venni mandato appositamente a Orlando da Indianapolis per assistere a questo evento. Infine citerei una partita che ho potuto vedere solo in tv purtroppo, ovvero gara 6 della finale NBA del 1998 tra i Chicago Bulls e Utah Jazz, canestro decisivo di Michael Jordan a 5 secondi dal temine.
Quali erano le sue squadre del cuore?
Io penso che quando una città ti ospita sia doveroso simpatizzare per le squadre di quella città. Non riesco a comprendere chi non fa il tifo per la squadra della propria città. Nel basket assolutamente il mio cuore batte per i New York Knicks, in più simpatizzo per i Brooklyn Nets. In modo più tiepido ho seguito anche gli Yenkee, per quanto riguarda il baseball, mentre nel football tifo per i Denver Broncos.
Qualche mese fa è scomparso Kobe Bryant, che ricordi conserva di lui?
Non posso dire che ci fosse un rapporto di amicizia tra di noi, comunque ci conoscevamo e parlavamo insieme in italiano. Quando lo conobbi, lui era un ragazzino, ebbi l'impressione di una persona un po' arrogante e presuntuosa. Poi è maturato, è diventato non solo un campione ma un uomo molto intelligente. Il talento non basta per diventare campioni nello sport, se non hai doti umane e caratteriali non sfondi.
Chi si rammarica di non essere riuscito ad intervistare, durante la sua permanenza negli States?
Senza dubbio Tiger Woods.
Chi sarà la prossima stella della NBA?
La prossima stella c'è già, è Giannis Antetokounmpo. A seguire Luka Doncic.
Tra la fine degli anni novanta e primi anni duemila molti italiani sono transitati in NBA. Ora questo trend si è un un po' fermato, secondo lei perché?
Non sono un esperto di basket italiano, lo seguo poco. Credo che il campionato sia popolato da troppi stranieri, considerando che sul parquet vanno solo in 5. Questo non favorisce la crescita dei nostri talenti. Forse dovrebbero provare a percorrere il sentiero del college basket per arrivare in NBA, ma anche questo è molto difficile.
Cosa mi dice dei suoi colleghi Federico Buffa e Flavio Tranquillo?
Sono due persone eccellenti, bravissimi nel loro lavoro, esperti di basket e non solo. Hanno una cultura eccezionale, potrebbero parlare di qualunque cosa.
Dopo tanti anni da corrispondente per il quotidiano, oggi si occupa del sito web di Gazzetta. Si dice che la carta stampata sia morta, ma non crede che siti internet e carta stampata si rivolgano a un pubblico differente?
Credo che la strada da seguire sia quella intrapresa ormai da alcuni anni dal New York Times. Le notizie vengono pubblicate e aggiornate in tempo reale sul sito web, mentre il quotidiano che viene stampato il giorno successivo si occupa prevalentemente di interviste, approfondimenti e reportage. Il Coronavirus è una tragedia, ma a livello editoriale era una occasione per iniziare questa transizione, i giornali nelle ultime settimane hanno perduto migliaia e migliaia di copie, anche se le edicole continuano a restare aperte.
Chi considera un maestro nella sua professione?
Maestri ne ho tanti, bisogna saperseli scegliere. Io non mi considero un talento naturale, ho saputo migliorarmi attraverso la voglia di lavorare molto e duramente. Ho avuto molti "allenatori", ho letto tutto quello che potevo dei colleghi che consideravo di un livello superiore.
Cosa rappresenta per lei New York?
È il secondo capitolo della mia vita, mi sono trovato bene e le devo molto anche se poi non l'ho amata così tanto. Non ho mai voluto far parte del tessuto sociale di New York, né degli Stati Uniti. Comunque ci sono tornato e ci tornerò, ma era arrivato il momento di tornare, aveva esaurito il suo scopo.
Ha mai pensato di scrivere un libro?
Si certo, non l'ho ancora tirato fuori dal cassetto, ma prima o poi da lì uscirà. Me lo devo.
Secondo lei è terminato il campionato di calcio?
È una domanda che non ha risposta attualmente. Spero che si possa ricominciare, vorrebbe dire che ci siamo buttati alle spalle questo periodo orribile, ma non potremo dimenticare facilmente le migliaia di persone cadute.