
Non voglio essere bugiardo nei confronti dei miei lettori, oggi è giorno di "repliche". Il pezzo che state per leggere è già stato pubblicato su un'altra testata alcuni mesi fa, purtroppo questa settimana non avevo niente di meglio da dirvi. Spero che questo racconto possa comunque piacervi e appassionarvi, è comunque una storia del mio diario. Buona lettura.
La maratona di Boston
Se penso al freddo e alla pioggia che ho preso quel giorno, mi vengono ancora i brividi. Non scherzo, rischiai l’ipotermia, tornato in hotel dopo la gara tremavo come una foglia, il gelo mi arrivava alle ossa, accesi il riscaldamento in camera e, dopo la doccia, mi infilai a letto per una buona ventina di minuti, cercando di riscaldarmi. Eppure, quello era uno dei giorni più felici della mia vita, avevo vissuto una esperienza di quelle che non vedi l’ora di raccontare agli amici, ai famigliari e sopratutto ai tuoi nipoti, a cui il racconto lo puoi “vendere” coi connotati della leggenda.
Presi il via con l’ultima “ondata”, l’attesa fu davvero lunga, nel villaggio di partenza a Hopkinton, che dista circa 40 chilometri da Boston. Ognuno ingannava il tempo come poteva, e cercava di scaldarsi bevendo del caffè caldo, offerto dagli organizzatori. Nel momento preciso in cui lo starter diede il via all’ultima wave, cominciò a piovere e non smise più per tutte e quattro le ore che impiegai a portare a termine la corsa. Ricordo l’eccitazione che mi spingeva, le gambe giravano regolari, leggere, quasi non mi accorgevo di correre. Potevo persino guardarmi attorno, osservare il pubblico, un serpentone che non ha mai smesso di incoraggiarci, a tutti, dal primo all’ultimo; nessuno è rientrato in casa perché pioveva, nessuno si è stancato ed andato via, volevano essere parte della gara, della nostra vita, essere nei nostri ricordi.
Il trentesimo chilometro arriva quasi senza accorgermi, tra applausi, musica e pioggia. Poi si affronta la salita detta Heartbreak Hill, la collina che spezza il cuore, nel vero senso della parola: questo luogo infatti prende il nome dall’episodio accaduto nel 1936, quando Ellison Brown superò Johm Kelly, e andò a vincere la corsa “spezzando” appunto il cuore di quest’ultimo. Dopo questa, che è l’ultima di quattro brevi ma dure asperità, mancano 7 chilometri al traguardo. Si entra finalmente in Boston, le emozioni si mescolano, tra la fatica che sembra ucciderti, lì in quell’istante, e l’eccitazione di sentire il traguardo vicino. Ne senti l’odore, come gli squali sanno avvertire quello del sangue, è questo che ti fornisce un plus di energia che ti permette di arrivare in fondo.
Quando manca un chilometro e mezzo, si passa sotto un cavalcavia, si svolta a destra, e la strada è in leggera salita. Leggera, ma sarà la stanchezza e la pioggia, la salitella pare una scalata al K2. C’è un tizio accanto a me, con la bandiera americana, lui cammina, io proseguo correndo, e vedo in lontananza l’imbocco di Boylston Street, dove è situato il traguardo.
Ed è qui che non trattengo più le lacrime, penso a tutta la fatica che ci è voluta per arrivare fin lì, la volontà e l’ostinazione che ci ho messo. Tutto adesso si concentra in pochi centinaia di metri, quelli che mi separano dal traguardo. Svolto a sinistra e non dimenticherò mai, giuro, mai, il boato delle gente mentre noi, ultimi tra gli ultimi, arrivavamo al traguardo come eroi non secondari di un libro che si scrive dal 1897.
Anche i nostri nomi resteranno scolpiti nelle sua storia, magari ai margini, ma comunque presenti.
Cerco di trattenere tutte le emozioni che provo, cerco in tutti i modi di conservarle come posso, più che posso, perché niente di quello che sento sarà ripetibile, e dura un istante, qualche battito di cuore, alcuni soffi di respiro, e tagliato il traguardo tutto sarà finito. Sono sotto il traguardo, chiudo un capitolo, ora ho una storia da raccontare, una parentesi unica, nell’ordinario romanzo della mia vita.