La maratona, una festa a cui non sono mai stato invitato

Tra dieci giorni partirò alla volta di Valencia, per disputare l’ultima maratona del mio personalissimo anno podistico. Dieci sono anche gli anni trascorsi da quando per la prima volta, con una improvvisata e improbabile armatura da runner, ovvero una maglietta e un pantaloncino consunti e in disuso, pescati dal fondo del mio armadio, decisi di percorrere per la prima volta un tratto di strada correndo, per trarre del (presunto, allora) benessere. Non potevo immaginare che quei pochi minuti di fatica e patemi, da dove riemersi ansimante e sudato all'inverosimile, sarebbero stati solo i primi di un percorso lungo, tortuoso, ricco di gioie ma anche di dolori, di delusioni e piccoli successi personali. Erano i primi vagiti di un maratoneta dalle possibilità limitatissime, con un fisico non solo inadatto a correre, ma completamente antitetico rispetto alle caratteristiche necessarie per la pratica di questo sport. I primi, piccoli, all'apparenza insignificanti passi di un viaggio che è ancora in corso, di una storia ancora si sta scrivendo. Una vita dentro una vita, la mia.

Una storia che tra pochi giorni, proprio in quel di Valencia, si arricchirà di un ulteriore capitolo, ultimo solo in ordine di tempo, ma non certo l'episodio finale di questa saga. Ancora distante è il giorno in cui calerà il sipario su questa finestra della mia vita. Però, se mi fermo a pensare un istante, mi rendo conto che mi trovo in un punto del mio percorso in cui è il momento di fare alcune riflessioni, tirare un po’ le somme prima di proseguire. Perché sono passati dieci anni da quando ho intrapreso questo cammino e mi rendo conto che non sono più la stessa persona di allora, né dentro né fuori. So che, a quasi quarantaquattro anni, il mio fisico è un po' più consumato, usurato, non solo dai dieci anni in più, ma dai chilometri percorsi, lungo la strada non solo della maratona, ma della vita. A un fisico meno brillante, passato anche per un incidente stradale che mi ha menomato, posso però contrapporre una maggiore consapevolezza di me, una forza mentale che non mi apparteneva. L'educazione al sacrificio e alla sofferenza, alla cultura del lavoro, anche se svolto a modo proprio e non quello canonizzato dagli esperti, sono ingredienti necessari non solo nello sport, ma anche nel quotidiano. E quale migliore palestra per i neuroni che la pratica della maratona? La resistenza, la perseveranza, la testa dura, la forza di non dire basta, di non dire non posso, fortificano il carattere, alimentano le ambizioni, allenano la mente. In questo anno ormai agli sgoccioli, ho riscoperto la voglia di sacrificarmi, di dedicare molto tempo alla corsa, quasi come facevo all'inizio. Ho riscoperto la gioia della fatica, quella sensazione di benessere psicofisico che oggi tutti chiamano endorfine, ma che io mi limito a definire stare bene. Benché mi accorga da piccole cose che il tempo sta passando e nonostante la qualità espressa nel mio modo di correre sia sempre stata modesta, mi rendo conto che certi ritmi mi sono ormai preclusi, che ora faccio più fatica ad andare ad allenarmi se fuori piove o se fa freddo, ad esempio. E che alcune sere mi piacerebbe arrivare a casa, levarmi le scarpe, sposarmi col divano e al resto del mondo pensarci domani. Oppure mi piacerebbe passare una domenica mattina sorseggiando un cappuccino al bar, anziché essere per strada a correre il così detto “lungo”, unica concessione che faccio alle tabelle, che mi sono sempre rifiutato di seguire. Perché almeno la corsa, mi sia concesso di viverla col solo istinto, viviamo già nella prigione di troppe “tabelle” nella vita di tutti i giorni.

Nonostante tutti i mutamenti in atto fuori e dentro di me, ho trovato ancora il coraggio e la forza di buttare una volta di più il cuore oltre l’ostacolo. Perché per me la maratona è stata anche un ostacolo. Non posso nascondere infatti che non sempre l’ho vissuta con gioia, alcune volte mi sono approcciato a lei più sicuro di me, ma altre invece sono stato troppo rispettoso, troppo riverente, quasi rasentando la paura. La maratona è un bellissimo traguardo, posto alla fine di un cammino spesso tormentato, fatto di dolore, di crisi fisiche e mentali. Una esposizione totale e prolungata alle intemperie, o al sole cocente. E’ fatta di sporcizia, di cattivi odori, di sudore a volte persino di sangue. Non è solo bellezza, anzi. La bellezza spesso è un momento fugace, che vorresti stringere, interpretare, recitando nel modo più originale possibile affinché resti indimenticabile, affinché non passi come tutti gli altri attimi che viviamo. Ma non c’è nulla da fare. Tutto ciò che vorresti far restare, quasi sempre scappa via. Eppure, nonostante tutte quelle che ho appena citato, e vi assicuro che ce ne sono altre, possano sembrare controindicazioni, sono invece tra i motivi cardine, escluse le motivazioni personali di ognuno, per correre una maratona. Perché se batti tutto questo, hai vinto. Hai vinto. Non c’è null'altro da dire. Quando vai oltre la fatica, oltre le cattive condizioni meteorologiche, oltre il dolore, hai vinto. Quando non cedi alla tentazione di arrenderti, quando vuoi fare ancora un chilometro, quando vuoi arrivare al prossimo ristoro, hai vinto. Quando scavalchi il muro del trentesimo chilometro, quando superi te stesso e le tue debolezze, hai vinto. Perché Il maratoneta amatoriale è un essere speciale. Al via di ogni maratona si pone davanti ai suoi limiti, li guarda negli occhi e non abbassa mai lo sguardo. Li affronta. La maratona è l’ignoto posto nello spazio di quarantadue chilometri e rotti metri. Molte volte ho sentito dire che la maratona è una festa. Sarà pure così, ma nel mio caso è una festa alla quale non sono mai stato invitato. Ma a cui, imperterrito, mi presento.