
Non è stato facile trovare un lavoratore del settore della sanità con cui parlare, il momento è molto difficile, per loro più che per altri. In tv e sui sui giornali se ne vedono e leggono tanti, così che sembra facile trovarne uno disponibile a mettersi a nudo in una intervista che più che un racconto, è una confessione. Invece bisogna andarci molto cauti, avvicinarli gentilmente e con delicatezza, capire fino a dove hanno voglia di spingersi, persino capire se preferiscano rimanere nell'anonimato. Dopo qualche passaggio a vuoto, frutto di decisioni comprensibilissime dato il momento, prima con persone che hanno preferito declinare il mio invito poi con altre che hanno deciso di non far pubblicare l'intervista, quando ormai era pronta ad uscire, mi sono imbattuto quasi causalmente in Alberto Costa. Alberto, 53 anni, appassionato di nuoto è un infermiere, uno di quelli in primissima linea perché lavora proprio in una delle zone dove l'emergenza è più grande. Mi chiede soltanto di non citare l'ospedale per cui lavora "Ma scriva pure il mio nome e il mio cognome, non vorrei pensassero che se la sia inventata l'intervista".
Prima del 23 febbraio, giorno in cui l'Italia è caduta ufficialmente nel baratro, cosa si diceva tra voi addetti ai lavori del Coronavirus?
Sapevamo che sarebbe arrivato anche nel nostro Paese, era impensabile circoscrivere il virus alla Cina. Non avevamo però idea né della gravità né della grandezza del problema. Non è stato sottovalutato, attenzione, non era possibile prevedere le dimensioni catastrofiche con cui si è manifestato il contagio.
Nell'ospedale in cui lavora siete attrezzati in modo adeguato per contrastare il Covid19?
Assolutamente si, abbiamo tutti i dispostivi di protezione e respiratori per tutti i degenti. Tenga presente che abbiamo ampliato di 3 volte i posti letto del reparto di rianimazione, riconvertendo in reparto di terapia intensiva altre aree della struttura ospedaliera e richiamando personale da altre unità, temporaneamente chiuse.
Veniamo al tema tampone: agli operatori sanitari asintomatici non viene fatto, come per tutti gli altri pazienti. Non crede sia rischioso questo, per voi ma per gli stessi degenti?
Potrebbe effettivamente essere un rischio, secondo me c'è un po' il timore di scoprire quanti asintomatici ci sono, tra di noi. Non me la sento però di fare polemica, stiamo facendo tutti del nostro meglio e quando dico tutti intendo tutti.
Chi fa il suo lavoro assiste da vicino alla sofferenza degli altri da sempre. Come riesce a far fronte a tutto quello che vede ogni giorno?
Credo che questa cosa non si impara, ce l'hai o non ce l'hai. Quando esco dall'ospedale stacco la spina e a casa non parlo mai della mia giornata. Il fardello da portare con sé altrimenti sarebbe troppo grande. So che alcuni colleghi in questi giorni non riescono a estraniarsi totalmente quando finisce il turno, e a casa piangono. Tenete conto che attualmente nel nostro reparto accade questo: il paziente arriva sveglio, parliamo con lui, gli diamo la possibilità di chiamare casa, poi li intubiamo, si addormentano e spesso non si svegliano più.
C'è qualcuno che ricorda in particolare, tra le persone che ha assistito?
Un signore di 58 anni, in condizioni molto gravi. Abbiamo anche scherzato per qualche istante e ci eravamo ripromessi di bere una birra insieme quando tutto fosse finito. Purtroppo non sarà possibile, è morto dopo pochi giorni. Ma anche il collega che ha dovuto intubare sua mamma, ed una collega a cui la madre è venuta mancare durante il proprio turno di lavoro.
C'è qualcuno dei suoi affetti in ospedale in questo momento?
Recentemente è stata ricoverata una mia amica, purtroppo non so se riuscirà a cavarsela.
Qual è la cosa più difficile da sopportare?
Non riuscire a salvare più persone. Sai che farai tutto il possibile per aiutare chi sta male, ma questo potrebbe non bastare. Ha presente la scena della roulette russa nel film "Il Cacciatore"? ecco, penso sempre «A chi toccherà il prossimo proiettile?» Il tasso di mortalità è elevato, ed più o meno uguale in tutti i reparti di rianimazione.
Ha mai avuto la tentazione di fuggire dalla corsia?
Mai. Anzi, quando torno a casa a fine turno vorrei tornare in ospedale a dare una mano a pazienti e colleghi. Questo è il sentimento comune tra di noi, non solo mio.
Come descriverebbe il suo stato psicologico attuale?
Per il momento mi sento bene. Vivo tutto con quel minimo distacco che permette di mandare avanti la propria vita, altrimenti sarebbe impossibile. Anzi, recentemente mi sono reso disponibile dopo il lavoro a fornire aiuto a domicilio alle persone del quartiere dove vivo, del tutto gratuitamente.
La gente vi chiama eroi. Le si sente un eroe?
No. Questa è la cosa che mi da più fastidio. Prima di questa emergenza ci additavano come privilegiati e lava sederi. Noi siamo gli stessi che non possono quasi mai organizzarsi un week end di vacanza, una cena con amici. Gli stessi che da sempre lavorano quando per tutti gli altri è festa, la cui salute è a rischio sempre. Curiamo gli ammalati da sempre e sempre lo faremo, non è una novità per noi. Ho dei colleghi fantastici, a partire da quelli che sono giunti da altri reparti. Nessuno si è mai tirato indietro, nessuno che abbia mai detto «Non ce la faccio», nessuno che abbia mai detto «Domani non vengo». Sono fiero di quello che faccio, è il lavoro che ho scelto, sono in rianimazione da 16 anni. Il nostro contratto collettivo è scaduto 13 anni fa e ancora non ci viene rinnovato, quando tutto sarà finito non voglio pacche sulle spalle o complimenti, ma uno stipendio adeguato. Vorrei ricordare a chi se lo dimentica, che siamo l'unico Paese, o comunque uno dei pochi, in cui se ti ammali vieni ricoverato, vieni curato, e quando vieni dimesso nessuno ti presenta la fattura. Un ricovero in rianimazione può arrivare a costare 200.000 euro.