
Come mia consuetudine, smaltita la fatica e l'ebbrezza gioiosa del traguardo raggiunto, questo sarebbe il momento del resoconto della mia maratona. La Valencia Marathon. Chi ha già letto le pagine del mio diario, lo sa che io non racconto di aspetti tecnici, malizie tattiche, qualora ce ne fossero, o finezze stilistiche. Io racconto emozioni, le sensazione che mi hanno accompagnato durante tutto il percorso, lungo questo nuovo viaggio che pur restando sempre della stessa durata, non è mai uguale a se stesso. Questa volta però è più difficile trovare il lato giusto per entrare nel vivo del racconto, trovare un punto da cui iniziare, farsi portare dalla storia, trovare le parole giuste per descrivere sensazioni conosciute sì, ma più intense e di cui non sono certo della piacevolezza. Questa volta non ho solo corso una maratona fuori dal mio corpo, ne ho corsa una anche dentro.
Io non credo al paradiso, non credo all'inferno, agli spiriti, ad esseri superiori che pare ci osservino dalla mattina alla sera e che per i miei gusti sarebbero fin troppo distratti. Perché se queste entità esistessero, non ci porterebbero vie le persone care nel fiore degli anni, lasciandoci soli nel vuoto e nello sconforto. Ma ho deciso di credere almeno ad una sola di queste icone, se non voglio che i ricordi sbiadiscano, che gli istanti vissuti non vadano persi, seppelliti insieme a ciò che resta di tangibile di chi non è più con noi. Devo, anzi voglio avere un salvagente, una maniglia antipanico, un appiglio qualsiasi a cui aggrappare quei ricordi dell'infanzia che si fanno sempre più sottili, consunti e invecchiati dal tempo che scorre e che rischiano di svanire se non hai più chi li possa tramandare, rivivere con te. Così ho scelto di credere agli angeli. Sì perché un angelo mi ha sostenuto, mi ha dato la forza, mi da dato un motivo per portare a termine una maratona a cui ero pronto fisicamente, ma non mentalmente, distratto dal dolore dei pochi giorni trascorsi da quando quel caro, giovane vecchio amico mio, non mi camminava più accanto.
Mi sono accorto dal momento in cui ho preso il via, che sarebbe stata una giornata lunga. I muscoli flessibili e guizzanti di qualche giorno prima, avevano lasciato il posto a fredde riproduzioni in marmo di cui potevo perfettamente avvertire l'inutile e ingombrante peso. Se già la mente vacillava, ora anche il corpo si ribellava alle mie pretese di ignorare il fatto che sarei incapace di portare a termine una maratona, ma comunque lo faccio. "Quindi ora cosa succederà"? mi sono detto. Tutto il duro allenamento perpetrato per mesi, soprattutto in quelli più caldi dell'estate, e poi ritrovarsi dopo pochi chilometri nel bel mezzo di un calvario da cui vorresti sottrarti al più presto, dichiararti sconfitto una volta per tutte e mandare al diavolo quella parte di te che esige, periodicamente, di espiare attraverso la corsa una colpa a te sconosciuta e commessa probabilmente in una altra vita. E' stato proprio in quel momento, quando mi sentivo solo al mondo in mezzo a migliaia di persone, come un coriandolo che ondeggia anonimo nell'aria la mattina di natale, che ho sentito un angelo vicino a me. Non un angelo qualsiasi, ma proprio lui, quell'angelo. L'ho sentito con me, attorno a me, accanto a me. Era con me quando alzavo la testa guardando l'orizzonte, sperando di vedere il traguardo che invece era ancora lontano, sussurrandomi "Non mollare". Era con me e con un soffio mi spingeva piano, quando la gambe hanno cominciato a farmi male, i piedi a bruciare e avrei voluto gridare per buttare in fuori e un po' più in là la fatica, sperando così di smettere di soffrire. Era con me quando mi sono chiesto chi me lo stava facendo fare, ricordandomi che lo stavo facendo per lui, ma anche per me. E' stato con me a ogni respiro, ad ogni passo, ha attraversato i continuamente i miei pensieri, non mi ha abbandonato perché a quel punto anche lui voleva portare a termine la sua maratona. Mi ha tenuto la mano fino a quando dietro l'ultima svolta è apparso l'arco del mio personalissimo trionfo, il traguardo. Non un miraggio, ma la meta, la fine del viaggio e di questa storia di angeli, lacrime, chilometri, vesciche. In una parola: fatica. Poi ha preso il volo, pochi metri prima che ponessi fine alla mia gara, indicandolo lì in alto nel cielo, da dove mi salutava guardandomi con quel sorriso che faceva solo a me, come quei fratelli maggiori fanno ai fratelli minori un po' birichini e pasticcioni. Così eravamo noi.
Non posso che dedicare a lui la mia tredicesima maratona. A Lui che mi ha portato con sé ai concerti, quando ero già un uomo fuori ma ancora troppo bambino dentro. Lui a cui ho confidato i miei pensieri. Lui, spiritoso e irriverente ma anche intelligente ed equilibrato. Lui che viveva tra le righe, soffriva in silenzio per non disturbare, perché "ognuno ha le proprie preoccupazioni". Persino quando se ne è andato, lo ha fatto senza fare rumore. Tutto questo era lui, e anche se so che una medaglia di latta non è sufficiente a rendere omaggio alla memoria di un uomo, un amico straordinario per chiunque l'abbia conosciuto, spero con queste mie parole e la mia fatica, di aver fatto un pochino onore a una persona a cui volevo bene.