Gabriela Andersen, l'arte di non vincere

L’Olimpiade non è un capitolo qualunque della vita di uno sportivo. Anzi, probabilmente è proprio un romanzo a sé stante, più che un singolo racconto. Così lo sport, attraverso le sue storie, finisce con lo scandire l'esistenza degli appassionati, intrecciando le vite dei suoi protagonisti con le nostre. Ogni Olimpiade si colloca nel proprio momento storico, facendo da segnalibro nell’album dei ricordi. E scostando quel segno, riscopriamo le pagine che ci eravamo promessi di non dimenticare, rivivendo i singoli gesti, i singoli istanti come fossero sottolineature in giallo da ripercorre passandoci sotto il dito.

Los Angeles 1984: ultimi Giochi Olimpici disputati in suolo statunitense, durante la guerra fredda. Il blocco comunista ricambia la "cortesia” e boicotta la manifestazione, così come gli Usa avevano disertato Mosca nel 1980. Solo Cina, Jugoslavia e Romania rappresenteranno la falce e il martello in quella edizione. Le prime crepe nel muro, verrebbe da dire col senno di poi. Ronald Regan, che nella sua vita precedente faceva l’attore ed era protagonista di film non propriamente d’essai, è il presidente degli Stati Uniti in carica e padrone di casa, il cui mandato scadrà da lì a qualche mese e che si riconfermerà alla guida della nazione a stelle e strisce.

Senza l'Unione Sovietica il medagliere è un monopoli di cui gli Usa posseggono praticamente tutte le caselle. Anche Il 5 agosto, il giorno della gara regina dell’atletica, la maratona, la medaglia d'oro sarà appannaggio di un'atleta di casa: Joan Benoit. Di lei, i libri di storia dello sport parleranno con la riverenza dovuta alla vincitrice della prima maratona olimpica femminile. Ma quegli stessi libri diranno che non sarà Joan la vera protagonista.

Quella mattina la temperatura dell’aria è di 32 gradi, e l’umidità del 90% amplifica a dismisura il calore percepito, rendendo ancora più improba una gara famosa per forgiare i propri eroi, sia nelle vittorie che anche nelle sconfitte. A partire proprio dal mitologico Filippide, che morì dopo aver corso con indosso la propria armatura i 42,195 km che separano Atene e Maratona. Gabriela Andersen-Schiess sembra non aver nulla a che spartire con questa storia. Vive nell’Idaho ma è svizzera, ha 39 anni, negli anni 70 è stata una mezzofondista di discreto successo, ma soltanto nel suo Paese. Nulla più di questo. Nel 1984 fa l'istruttrice di sci. Non si sa bene il perché venga scelta per rappresentare la Svizzera alle Olimpiadi proprio nella gara più dura. O forse si: è la prima volta che ai Giochi si disputa la maratona femminile, probabilmente Gabriela è quanto di più simile a una maratoneta e il meglio che la Svizzera possa schierare ai nastri di partenza. Dirà in seguito "Non c'erano evidenze mediche che sconsigliassero alle donne di prendere parte a una maratona, con la mia partecipazione volevo contribuire a far cadere questo tabù".

La Andersen sa bene che non può restare con le primissime della classe, così nei primi chilometri forma un gruppetto insieme ad altre dieci/quindici atlete. Supera la mezza maratona assecondando la sua tabella di marcia e fino al trentaduesimo chilometro si sente bene, proseguendo la gara senza grossi intoppi. Quando però raggiunge l'ultimo ristoro, incredibilmente, dimentica di idratarsi:"Non ricordo se lo feci consapevolmente, o se ero troppo concentrata ad ascoltare il mio corpo, fatto sta che saltai il ristoro". La giornata è rovente, il sole brucia, temperatura e umidità sono altissime, in più l'asfalto aumenta ulteriormente la canicola. Gabriela si scioglie piano piano come un gelato, rallenta vistosamente e completamente disidratata si avvia alla conclusione della gara.

Ultimi 400 metri. Dalla bocca dello stadio ove è situato il traguardo esce una figura alta e magrissima, con la pelle bianca come il latte. Indossa la canotta rossocrociata, i capelli le cadono sul viso come fosse appena uscita dalla doccia. Gabriela è preda dei crampi, barcolla come farebbe un ubriaco. Sotto i suoi piedi la pista in tartan sembra il filo sottile di un equilibrista che vibra pericolosamente. Ad ogni passo sospinto in avanti ne corrisponde uno di lato. La Andersen è continuamente sul punto di stramazzare al suolo, ma una forza misteriosa la attrae verso il traguardo. Quando i giudici di gara si avvicinano a lei per soccorrerla riesce a scansarsi di quel tanto per far capire loro che no, non vuole aiuto, non ancora. C'è ancora qualche metro da percorrere, incorrere in una squalifica proprio ora che la meta è visibile all'orizzonte sarebbe una beffa troppo grande, una punizione marziale oltre che una ingiustizia. Non si può vanificare tutto quel sacrificio, tutta quella fatica, quella forza di volontà. "Se fosse stata una qualsiasi altra gara mi sarei senza dubbio fermata, ma quel giorno non potevo. Sapevo che non avrei avuto un'altra occasione di participare alle Olimpiadi, volevo tagliare il traguardo a tutti i costi". Gabriela ha quasi completato il giro di pista, imbocca la retta d'arrivo, la sua vita dipende tutta da quegli ultimi 100 metri. Il pubblico è in piedi, l'energia che scaturisce dal calore degli applausi è per lei come una riserva di carburante.  Quando mancano davvero pochi passi ondeggia paurosamente, la caduta sembra una verità ineluttabile. Ancora una volta però la Andersen resiste, evitando di fare la fine dello straccio bagnato. Finalmente attraversa la riga bianca facendo appello a tutto ciò che rimane di lei, dopodiché si inginocchia, reclina la testa all'indietro e si lascia vivere, non ha più la forza per fare null'altro. Le ci sono voluti più di 5 minuti a percorre gli ultimi 400 metri. I giudici ora possono finalmente soccorrerla: la prendono in braccio e la portano in infermeria in tutta fretta. È l'immagine che incornicia la sua impresa. Come il nostro Dorando Pietri nel 1908, Gabriela diverrà famosa per non aver vinto.

La Andersen chiuderà la maratona staccata dalle prime posizioni, lontana anche da quella medaglia di legno che viene idealmente assegnata a chi sfiora la conquista di un bronzo olimpico. Ma grazie al quel finale così drammatico che sposa alle perfezione epica e tragedia, nessuno potrà mai sottrarsi dal rendere omaggio al suo coraggio, alla sua forza d'animo, a riconoscerle il rispetto dovuto a chi onora le Olimpiadi e lo spirito che da sempre le caratterizza, con una tenacia rara. Secondo il celebre comandamento del barone Pierre de Coubertin, l'importante è partecipare. Se è davvero così, Gabriela lo ha fatto al suo meglio, dimostrando che gli eroi dello sport non sempre scrivono le loro gesta nel libro sacro della leggenda con l'inchiostro dorato della vittoria.