Fiocchi di patata

Dice Gattoscrivente di Carlo Esposito

Donne, sport, social. E quel diabolico bisogno di appartenere ad una setta.

C’è un gradevole film con Mel Gibson che si chiama “What Women Want”. Come spesso capita con i film americani, è la fiera degli stereotipi, il protagonista in particolare è un pubblicitario capace di vendere la neve agli eschimesi ficcandoci comunque delle svedesi in bikini.

Sono passati vent’anni, siamo sicuri che sia cambiato qualcosa?

Lo sapete tutti, donne-sport è un binomio che tira, ci viene propinato in tutte le salse, è lo strumento di marketing più vincente degli ultimi vent’anni, declinato in tutte le forme possibili.

Fanno vendere molto le donne sportive. Sono belle, sono toniche, sono giovani, sono molto svestite e se fa troppo freddo indossano comunque abiti molto aderenti che lasciano poco spazio all’immaginazione. Sembra che a nessuno venga in mente che un certo tipo di foto sia ad uso e consumo di un pubblico maschile piuttosto bavoso e pruriginoso (lo sport amatoriale è roba da vecchi, basta scorrere le classifiche di una qualsiasi maratona o Iron man per rendersi conto che il grosso dei partecipanti è nella fascia di età 35-55, e nelle ultramaratone l’età media si alza ancora), quando non un modello di comportamento imperante fatto per trascinare altre donne nel gorgo dell’insoddisfatta emulazione.

Siamo insomma passati dalle tettone anni 80 in stile Drive In, alle anoressiche anni 90, agli addominali definiti e alle cosce muscolose dell’esercito delle sporty bloggers di questo inizio millennio. E’ un must have, che sembra risucchiare tutto in una gigantesca lobotomia porno-soft.

E vabbè, nulla di nuovo, a ciascuna epoca il proprio canone di bellezza, la bella patafiocca è sempre stata in bella mostra per invitare i maschi di potere e prestigio a spendere più volentieri i propri soldi: basta fare un giro a un qualunque salone nautico o automobilistico per rendersene conto, ma ci sono anche situazioni insospettabili: l’ultima fiera di tecnologia enologica a cui sono andato, era talmente stracolmo di donne bellissime, ammiccanti e giunoniche (in veste di hostess semischiave, mica di espositrici o potenziali acquirenti) che all’ingresso  per qualche attimo credevi di aver sbagliato ed essere sbarcato ad un casting per un film hard.

Quello che mi suscita sempre più spesso un sorriso amaro, quando non un vero e proprio sconforto, sono le reazioni che debba sopportare chiunque voglia stigmatizzare certi atteggiamenti e certe strategie di marketing, che sia con ironia, con serietà argomentata o con statistiche e numeri. Le donne fanno quadrato e i maschi bavosi incitano la truppa dalle retrovie. Se hai osato parlare per dire qualcosa di diverso da OSANNA, OSANNA, SEI BELLISSIMA e sei un maschio, allora sei un sessista misogino di stampo medievale, in alternativa gay, frocio, ricchione. Ebbene sì, in pieno 2020 c’è ancora chi pensa di offenderti usando termini simili. Se invece sei donna e hai osato venire per un attimo fuori dal pensiero unico, allora sei invidiosa, cessa, insoddisfatta, vittima del giogo maschile.

Insomma, sembra che l’unico diritto che possa e debba essere difeso a spada tratta sia quello di spogliarsi, esibirsi, raccattare like.  Questa giostra non solo non si può fermare, ma acquistando massa inerziale accelera sempre di più: aumenta il numero di quelle che wow, si sono alzate dal divano e non vedono l’ora di selfarsi in abiti succinti, truccate come artiste circensi, in pose sempre più inequivocabili, non sono mai sudate ma hanno appena concluso un grande allenamento o la gara della vita.

Sono tutte pantere, leonesse, sono tutte indipendenti e sicure di sé, anche se hanno bisogno di questa miserabile ricerca di conferme nell’approvazione (e titillazione) altrui. Foto “motivazionali” si sprecano, la più gettonata è un paio di belle caviglie tornite, di cui una indossa una scarpa da running e l’altra una elegante decolletee rigorosamente nera. Come se la femminilità si riducesse a quello.

Articoli su bloghettini si sprecano su “donne e resilienza”, come dimenticare l’apocalittico “maratona in tacco 12”?

Si moltiplicano inoltre le pagine di improvvisate tuttofare che definiscono sé stesse come “Donna, mamma, runner" andando all’assalto del webe brandendo il mantra del “noi donne”. Contro tutti. Sono cadute e si sono rialzate, sono fragili ma forti e devono dirtelo nel proporti calze e creme corpo, ricette dimagranti, materassi e programmi di allenamento.

Insomma, il modello di comportamento del salotto di Maria De Filippi diventa realtà, ma riceve una spinta retrograda verso la peggiore retorica adolescenziale di appartenenza di genere, ovvero “Donne contro uomini”, come un’orda di desperate housewives che la sera dell’otto marzo in branchi molto numerosi rivendicano il proprio diritto ad essere bestiali quanto i maschi che allevano, accudiscono e tollerano gli altri 364 giorni.

Addirittura la famigerata Runningmama non si fa problemi a dire che non accetterà mai uomini nel suo “programma”. E giù una sfilza di commenti obbrobriosi del tipo: “non li voglio gli uomini, questo per me non è solo un percorso fitness, è un percorso intimo e personale a tutto tondo

Eh, e che accidenti significa?

E fidatevi, se non fosse proibita qualsiasi discriminazione dal codice di giustizia sportiva, ci sarebbero già parecchie ASD di sole donne, dedite a seppellirci di imbarazzante propaganda da trincea 15/18 e ad usare, come già fanno, gli slogan delle varie campagne contro la violenza sulle donne per autopromuoversi ed autocelebrarsi, salvo poi tacere quando l’ennesimo politico o vip fa un’uscita talmente maschilista che tu la rileggi tre volte nel dubbio che sia una battuta umoristica. Maschi potenti, potrebbero servire un giorno. Il segreto è mostrare indignazione per cose sufficientemente astratte o lontane, in modo da non infastidire nessuno.

Ora, a tutte le amiche che mi chiedono quando parlerò del patafiocco maschile, rispondo che non ce n’è alcun bisogno. I maschi non hanno bisogno di fare i branchi urlanti un giorno all’anno, per il semplice fatto che possono molestare le donne in ogni giorno dell’anno e da soli, e non soltanto le spogliarelliste.

Una donna veramente emancipata, libera e sicura di sé, fidatevi, non ha bisogno di questa retorica dell’appartenenza né per vivere, né per farsi notare, né per lavorare.

E non confonde il glamour con il fascino, l’adolescenziale rivendicazione con la vita, l’appartenenza con la libertà.

Io sono nato cromosomico XY: dovendo definirmi, non mi verrebbe mai in mente di scrivere uomo, papà, runner. Domandiamoci perché.

P.S: almeno non chiamatela Corsa. E vi supplico, ficcate dentro quelle lingue, sembrate tanti labrador accaldati!