Esse, ex ospite di SanPa: "Quel posto non è un parco giochi, ma mi ha salvato la vita. Farebbe bene a molti, aiuta a crescere".

La docuserie prodotta da Netflix, Sanpa, ha riacceso l’interesse e soprattutto le polemiche su quella che è una delle realtà più discusse del nostro Paese: la comunità di San Patrignano. Da un lato Red Ronnie, Gianmarco e Letizia Moratti, insieme a tante altre famiglie comuni benedicono ogni giorno l’esistenza di quella che è considerata l’ultima spiaggia per chi vuole uscire dal tunnel, che è più un baratro, della tossicodipendenza. Dall’altra alcuni transfughi, ex ospiti che testimoniano come non fosse esente da peccati la conduzione della creatura di Vincenzo Muccioli, (se possibile ancora più controverso della comunità stessa), peccati che sconfinarono nel crimine. Coadiuvati da detrattori di ogni tipo, che insinuano sospetti sulle reali ambizioni di quella che nei fatti è la più grande comunità di recupero in Europa, per molti sembra somigliare più a una multinazionale. Anche noi abbiamo voluto dare voce a un ex ospite della comunità di San Patrignano, senza esprimere giudizi di sorta, né in un senso né nell’altro, ma solo facendo il nostro mestiere: porre domande. Il nostro testimone, che chiameremo Esse, prima di iniziare la nostra chiacchierata tiene a precisare una cosa:” Non voglio mantenere l’anonimato perché rinnego il mio passato, ma solo perché oggi mi sono completamente riabilitato: ho una casa, un lavoro, amicizie sane e una ragazza. Non tutti sono a conoscenza dei miei trascorsi, e vorrei che così continuasse a essere.”

In che anno sei entrato in comunità e come sei arrivato a fare questa scelta?

Sono entrato a San Patrignano nel 2009. Ho iniziato molto giovane a fare uso di cocaina, ero un animale notturno, frequentavo le discoteche e assumevo anche pasticche. Avevo 22 anni ed ero tossicodipendente dall’età di 14. Entrare in comunità non è stata una scelta, ma l’unica possibilità percorribile per tentare di riprendere in mano la mia vita. Continuando su quella strada c’erano poche alternative per me: o la tomba o il carcere.

Come è cominciata la tua dipendenza?

Iniziai facendo la cosa che mi piace di più al mondo, giocare a calcio. Siccome ero molto bravo mi facevano giocare con ragazzi più grandi, così una domenica mattina, prima di una partita, provai per la prima volta la cocaina. Lì per lì non mi sembrò neanche una cosa così grave. Un rapido susseguirsi di eventi mi ha in seguito trascinato nel gorgo della dipendenza. Molti pensano che quella di drogarsi sia una scelta, ma non è così. È la conseguenza di una serie di scelte sbagliate, quello sì, ma nessuno in sé decide di diventare un tossico.

Qual è l’iter da fare per entrare a SanPa?

È un percorso molto difficile. Non si può pensare di fare tutte le peggio cose fino alla sera prima, poi presentarsi alla sbarra di San Patrignano. Per entrare devi dimostrare di avere davvero la volontà di cambiare. Io entrai ufficialmente nel maggio del 2009, ma i colloqui iniziarono nel 2007. Una prima volta iniziai l’iter d’ingresso, ma poi mi rifiutai di entrare. Un anno dopo tornai con la coda tra le gambe. Si comincia dalle associazioni che sono distribuite su tutto il territorio italiano, gestite da ragazzi che a loro volta sono usciti dalla tossicodipendenza: ti illustrano quale sarà il cammino e valutano le tue reali intenzioni. Più avevo fretta di entrare più mordevano il freno. Mi dicevano: “Tu hai fretta di entrare perché se stai fuori continui a farti. Devi iniziare a lavorare su di te già prima del tuo ingresso, devi venire a colloqui poi tornare a casa e guardarti un film, anziché uscire e andare per locali”.

Come furono i primi tempi?

Durissimi. Per il tutto il primo anno e mezzo pensavo solo a una cosa: andarmene. Non facevo nulla, ero parcheggiato lì, rompevo le scatole a chi invece stava già compiendo fattivamente il proprio percorso di riabilitazione. Mi mancava completamente la lucidità, stavo smaltendo tutta la merda che il mio corpo aveva assorbito negli anni, senza alcun farmaco palliativo per far fronte all’astinenza. Non capivo il senso di quello che stavo affrontando, mi sembrava che il tempo passasse inutilmente.

Hai mai provato a scappare?

No, mai. Volevo andarmene così come ero entrato, alla luce del sole. Pensare a questo, avere questo moto di orgoglio, in qualche modo mi dava un motivo per restare. Tantissimi scappavano, ma lo facevano perché provocati dall’insostenibile richiamo del buco. Si drogavano dopo mesi di astinenza, poi morivano pochi giorni dopo, se non il giorno stesso. Fortunatamente c’era anche qualcuno che poi tornava.

Mi hai detto che non sei riuscito a guardare la serie, perché?

La serie ripercorre i primi anni della comunità, non posso sapere come andassero le cose a quel tempo. Però ci sono stati altri documentari e testimonianze, che non hanno avuto lo stessa impronta. La serie è stata girata con un occhio esclusivamente critico, con una assidua ricerca della storia torbida. Questo mi ha molto infastidito. Se fosse stato un posto così terribile, non sarebbe diventata la realtà che è oggi. Certamente non è un parco giochi, ma perché viene descritto come un lager? Questo contraddice completamente la realtà attuale. Perché non si è fatto invece un excursus del tipo: dall’origine ai giorni nostri? Non sarebbe stato un racconto più autentico? Io che sono stato lì per molti anni, faccio fatica ad accettare il messaggio che è passato. Al tempo stesso non mi spiego perché chi è stato lì, ed ha cambiato la sua vita, abbia reso testimonianze soltanto negative. Anche io potrei descrivere alcuni aspetti poco belli, ma non sarebbe una visione corretta di quello che rappresenta San Patrignano. Anzi, aggiungo una cosa: se non fosse un posto preposto a curare i tossicodipendenti, posso affermare tranquillamente che farebbe bene a tanti. Stare lì per un po’ ti aiuta a crescere, a capire davvero chi sei.

Hai mai assistito a episodi di violenza all’interno della comunità, di tipo fisico, verbale e/o psicologico?

Violenza no, dure prese di posizione, quelle si. Quando appresi della morte di mio fratello ci vollero tre persone per seguirmi. Era necessario venissi “marcato” in quel modo, affinché non facessi male a me stesso o agli altri. Ero molto manesco a quei tempi, le mi reazioni andavano sorvegliate. Se qualcuno pensa però che mi abbiano incatenato o legato, è fuori strada.

Una delle questioni che più hanno dato adito a discussioni riguarda l’aiuto psicologico: si fornisce assistenza da questo punto di vista?

Certo. All’interno della comunità ci sono tutti i generi di professionisti: dentisti, oncologici, chirurghi, dermatologi, psichiatri, psicologi, eccetera. All’inizio mi rifiutai di partecipare alle sedute, perché non è un passaggio obbligatorio del percorso, è una scelta individuale. Pensavo che lo psicologo non mi servisse. Scoprii invece quando fosse utile questa figura, quando dovetti affrontare la morte di mio fratello. Nonostante ciò che affermavo, non riuscivo a superare il dolore causato dalla sua perdita.

Avevi più paura della cocaina o di entrare in comunità?

Certamente di entrare in comunità. Quando ero piccolo ricordo come venivano messi all’indice quelli che vi entravano, per me rappresentava il punto più basso che una persona potesse toccare. Mentre non ho mai avuto paura di farmi. Eppure, ho fatto cose che a pensarci adesso, mi mettono davvero i brividi. Quando sei fatto non sei lucido, perdi i freni inibitori, quelli che normalmente ti terrebbero lontano dalle cose pericolose.

C’era una regola che faticavi a digerire, all’interno di SanPa?

La distinta separazione tra uomini e donne, anche se poi ho compreso che era impossibile lasciare che più di un migliaio di ragazzi, fossero liberi di relazionarsi a qualunque livello…sarebbe stata una situazione ingestibile. La permanenza a San Patrignano deve essere una parentesi: ci vai per ritrovarti e dopo un tot di tempo te ne vai, non sei lì a fare pubbliche relazioni o per coltivare rapporti.

Quale è stato il momento più duro?

Il momento più duro è arrivato dopo tre anni e mezzo. Nella maggior parte dei casi il programma ha una durata di circa 4 anni, quindi in teoria ero prossimo alla sua conclusione. Ma dopo un ritorno a casa in via sperimentale e per un breve periodo, mi resi conto che ancora non avevo la forza di affrontare i miei demoni. Così quando tornai in comunità, decisi che vi sarei rimasto altri due anni.

Invece quando hai capito che ce l’avresti fatta?

Quando iniziai a fare molte attività al di fuori della comunità: potevo frequentare la scuola guida, studiare, praticare sport, avere una frequentazione. Cose che ti vengono permesse solo quando la strada inizia ad essere in discesa.

La figura di Vincenzo Muccioli è ancora molto presente all’interno della comunità?

Ne sentivo parlare molto, ma io non la percepivo così tanto.

Molti detrattori dicono che più che una comunità somiglia ad una azienda, dove c’è un sacco di manodopera gratuita.

Sono stato a San Patrignano 5 anni e mezzo. Ho avuto le migliori cure, ho avuto un alloggio e sono stato nutrito. Tutto questo senza tirar fuori un euro. Col lavoro ho solo riguadagnato la mia libertà, ma ho anche acquisito il senso del dovere che questo implica, e che sarà indispensabile quando tornerai a vivere la tua vita. Senza dimenticare che molti ragazzi, nei laboratori della comunità, apprendono un mestiere che spesso diventa la loro professione, una volta fuori.

Hai mai paura di ricadere nel baratro?

Se dicessi di no sarei estremamente bugiardo. Però ora ho più consapevolezza, ho gli strumenti per capire quello che sto facendo, posso rendermi conto subito di quello che potrei perdere. Il tossicodipendente pensa solo a drogarsi, non ha tempo di fare riflessioni attente sulla sua vita.

C’è una persona in particolare a cui vorresti dire grazie?

Osvaldo Petris, per me è stato come un padre. Ha fatto si che la mia riabilitazione riuscisse. Alcuni pensano che basti stare in comunità per un po’ per cambiare tutto, ma ho visto ragazzi che hanno fatto il percorso con me che conducono nuovamente una esistenza disperata. Anche se ora Osvaldo non c’è più, non voglio deluderlo, ricadendo negli errori di un tempo. Ho una sua foto nel mio armadio, mi sorveglia e mi impedisce di fare cazzate.

Sei ancora in contatto con qualcuno di SanPa?

Si, ogni tanto ci torno, anche se ora manco da un po’ a causa del Covid. Non potrebbe essere altrimenti, quel posto mi ha salvato la vita.

Cosa vorresti dire ai ragazzi che stanno facendo ora i conti con la dipendenza da sostanze?

Vorrei dire, se stai leggendo le mie parole, di prenderle per quello che rappresentano: l’esperienza di uno che ci è passato. Quella non è vita, una esistenza autentica può essere anche fatta di poche cose, ma è importante viverle quelle poche cose.