Enrico Zaina: "Amo il ciclismo ma non è tutta la mia vita. Oggi troppi bravi ragazzi in gruppo".

Dal mio punto di vista, Enrico Zaina non era inferiore, per fare un esempio, ad un Ivan Gotti. Eppure, non ha avuto lo stesso successo. Nello sport capita, a volte non si riesce ad ottenere tutto ciò che si meriterebbe. Quello che è certo, è che Zaina è stato uno scalatore meraviglioso: non si arrivava alla Carrera per caso. Forse quella è stata, da un certo punto di vista, anche la sua vera sfortuna. Infatti, approdare in una squadra dove c'era già una star come Chiappucci e una stella nascente come Pantani, lo ha troppo presto relegato a ruolo di gregario di lusso. Enrico comunque non ha rimpianti, è contento di quello che è riuscito a fare nel ciclismo. Ammette di averlo amato, ma allo stesso tempo afferma che le due ruote non hanno rappresentato tutto il senso della sua vita.

Enrico, come ha iniziato ad andare in bicicletta e chi era il suo idolo?

Ho iniziato a 6 anni, vedevo i bambini del mio paese che andavano in giro con queste bici da corsa piccolissime, tutte colorate, io li seguivo con la Graziella della nonna. Successivamente mi sono iscritto al team GS San Marco. I miei idoli erano due: Bernard Hinault e Roberto Visentini.

Chi è stato invece il suo maestro?

Nella mia carriera ho avuto la fortuna di avere vicino tanti grandi del ciclismo, che hanno saputo consigliarmi per il meglio e darmi la giusta direzione, ma colui che considero in assoluto il mio mentore è Mino Denti, Campione del Mondo nella cronometro a squadre nel 1955.

Nel 1996 si classifica secondo al Giro d’Italia: sente di aver perso una occasione?

Quando si arriva secondi resta sempre un po’ di amaro in bocca. Sono a posto con la mia coscienza, ho dato il massimo, non essendo un fenomeno a cronometro ho preservato un po’ delle mie energie, per avere più benzina da spendere l’ultima settimana sul mio terreno, la salita. La realtà è Tonkov era davvero molto forte in quel momento: nell’unico giorno in cui è andato in crisi riuscì comunque a tamponare la mia offensiva, conservando così la maglia rosa.

Tra l’altro quello fu l’ultima stagione per la storica squadra della Carrera, che l’anno seguente cessò l’attività.

Si, l’anno seguente divenne Asics, Pantani andò alla Mercatone Uno mentre io e Claudio Chiappucci restammo. Durante il Giro del 96 Marco, che era fermo per l’incidente alla Milano-Torino, mi telefonò. Insieme al patron Romano Cenni, in svariate occasioni tentò di convincermi ad andare alla Mercatone, ma io avevo già dato la mia parola a Boifava.

Quale considera la sua la vittoria più bella?

La mia prima vittoria da professionista, la Salamanca-Avila alla Vuelta Espana 1992, insieme alla vittoria di tappa al Giro del 1996, con arrivo al Passo del Pordoi.

Nel 1996 dopo quello splendido Giro d’Italia, va anche al Tour de France, dove però è costretto al ritiro.

Ero partito per fare bene, poi a causa di una tendinite mi sono dovuto fermare. Comunque, a meno di non essere un fuoriclasse, è difficilissimo fare bene a entrambe le corse. Devo ammettere però, che il Tour non lo sentivo così tanto come il Giro.

Quando si è alla vigilia di un tappone, qual è lo stato d’animo di uno scalatore?

Pantani diceva che pedalava più forte in salita per abbreviare la sua agonia. Devo dire che è così un per tutti gli scalatori. Ogni tappa è una maratona, lo scalatore però quasi sempre arriva al traguardo da solo, per vincere deve staccare tutti . Le grandi salite diventano così una gara nella gara, in cui bisogna essere al cento percento, sia fisicamente che mentalmente, devi essere determinato e saper soffrire, soprattutto quando le cose non vanno come speravi.

Ha mai avuto la sensazione di non aver espresso al massimo il suo talento?

Coi "se" e coi "ma" non si fa la storia. I primi 3 anni della mia carriera hanno indirizzato molto il suo prosieguo. Ne parlavo proprio con Davide Boifava, poco tempo fa: forse non ero ancora pronto per fare il salto di categoria. Quando ero nei dilettanti ero considerato uno dei giovani migliori, mi chiamavano il Visentini del 2000. Allora non ero obbligato a vincere, vincevo perché mi veniva naturale. Invece quando passai pro le cose cambiarono, bisognava fare risultato e io non era preparato al “tutto o niente”. Pensai addirittura di smettere, tra il 1994 e il 95.

Oltretutto, alla Carrera aveva compagni di squadra come Chiappucci e Pantani, non era propriamente semplice emergere.

Era inevitabile, era l’era di Chiappucci, era lui la star su cui aveva puntato la Carrera. Io ero giovane, accettai di fare il gregario visto che non era previsto un altro galletto nel pollaio, anche se personalmente un corridore come me l’avrei gestito in modo diverso.

Com’erano i suoi rapporti con Chiappucci?

Claudio era un grande corridore, ma nei rapporti umani faceva molta fatica. Non abbiamo avuto scontri, ma non ho dei bei ricordi.

E con Pantani?

Con Marco ho sempre avuto un bellissimo rapporto. Non era di tante parole, ma era leale e concreto. Ci stavo bene con lui.

Oggi si vedono sempre più di rado quelle che venivano chiamate imprese, le tappe vinte partendo da molto lontano: si è abbassato il coraggio o il livello?

È cambiato il modo di intraprendere il ciclismo, è tutto più scientifico, c’è sempre meno fantasia e improvvisazione, di conseguenza meno spettacolo. Per fare un esempio: Froome secondo me è un grande atleta, ma non ha quell’alone da campionissimo che poteva appartenere a Pantani, a Bugno, ad Argentin. Erano personaggi, oltre che campioni. Mi ricordo che negli anni Novanta i bambini insieme alle magliette del Milan, dell’Inter e della Juve volevano anche la bandana del Pirata. Oggi è impensabile che un fenomeno del genere si ripeta.

E Nibali?

Gli voglio bene, ha personalità ma non il carisma per diventare un personaggio. E lui è uno di quelli meno uniformati, all’interno di un contesto di generale appiattimento. Troppi bravi ragazzi.

Come definirebbe la sua carriera?

Anomala. Ho sempre amato il ciclismo, l’ho praticato finché ho voluto, e finché mi è piaciuto farlo. Ma non ho mai pensato al ciclismo a tutti i costi, non è mai stato l’unico scopo della mia esistenza. Dopo lo sport c’è la vita, non esiste solo la fatica in bicicletta. Questo mi ha aiutato a tenere sempre i piedi per terra dandomi la consapevolezza, nei momenti difficili, che avrei potuto fare altro.

Non è mai stato convocato dal CT di allora, Alfredo Martini.

No mai. Ci andai vicino solo nel 1997, dopo essermi piazzato al quarto posto assoluto alla Vuelta. Non gliene faccio una colpa, ha premiato quelli che l’hanno seguito fedelmente. Mi ha rimproverato tante volte, mi diceva che ero un corridore da Nazionale, ma che non arrivavo al meglio nel finale di stagione. Io però a fine stagione avevo già dato tutto, non mi andava di partecipare a una corsa solo per esserci. Per capirci: in 12 anni ho preso parte al Giro di Lombardia una sola volta.

Quindi, se fosse stato al posto di Pantani, lei non l’avrebbe corsa la Milano-Torino nel 1995?

No, io non avrei partecipato, ma essere un campione non è facile, non rende la vita semplice.

Di cosa si occupa oggi?

Ho un negozio di biciclette che gestisco con mia moglie, Nadia De Negri. Insieme abbiamo anche dato vita alla Zaina Academy, dove avviciniamo i giovani alla mountain bike. Infine, collaboro con un tour operator specializzato in viaggi a scopo di caccia, la mia seconda grande passione.