
Rosario Palazzolo è il direttore della rivista che fa da punto di riferimento nel mondo della corsa, ovvero Runner's World. Un uomo molto garbato, che spiega il suo punto di vista con pacatezza, una di quelle persone che non hanno bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. Insieme a lui, affrontiamo alcuni degli argomenti che hanno fatto o che faranno discutere, nel mondo del running, a seguito del lockdown e della crisi provocata dalla diffusione del famigerato virus del Covid19.
Come è stato redigere Runner's World, durante la crisi per il Covid?
Devo dire che nella fase iniziale è stato molto difficile, soprattutto quando i numeri del contagio si sono fatti importanti: il mondo della corsa è stato travolto da una serie di immotivate accuse, sia dall'esterno che dall'interno. Anche tra i runners si sono create due fazioni: c'erano quelli che ci chiedevano di difendere il mondo del running, e chi invece ci pregava di raccomandare prudenza, invitando tutti a stare a casa. La nostra decisione, devo ammettere non sempre condivisa dai nostri lettori, è stata quella di spiegare a tutti le regole in modo chiaro, così che ognuno potesse operare le proprie scelte. Abbiamo cercato di fornire strumenti di informazione e non di opinione. Inoltre abbiamo pubblicato dei video sul nostro sito, all'interno dei quali consigliavamo esercizi da fare a casa, cercando di coinvolgere ulteriormente le persone, organizzando dei contest. Iniziative quest'ultime che hanno riscosso molto successo.
Ora che che gli animi si sono perlopiù placati, te la senti di dare una tua opinione su quanto successo nel mondo della corsa?
Si certo, oltretutto ora è più facile. Dare la propria visione delle cose in quel momento di altissima tensione, significava alimentare il fuoco della polemica. La realtà è che gli sportivi di tutto il Paese si sono trovati improvvisamente privati di palestre, circoli, centri ricreativi e sportivi. Insomma, di tutti quei luoghi dove ci si possa esercitare e praticare attività fisica. Cosa restava? La corsa...così è sembrato che la stragrande maggioranza della popolazione corresse per strada, nei parchi, ovunque. In aggiunta a tutto questo, credo ci sia stata una eccessiva...passami il termine..."criminalizzazione" da parte di alcune categorie, verso il running. Credo che anche nelle fasi più acute della crisi, la corsa avrebbe potuto solo essere d'aiuto, sia a livello mentale, che fisico.
A me ha colpito una cosa in particolare: non tanto che chi amasse la corsa volesse continuare a farlo, quello è normale. Ma che una rinuncia temporanea, viste la cause di forza maggiore, fosse considerata irragionevole. Tu che ne pensi?
Credo che in un lasso di tempo molto breve, le persone abbiano dovuto rinunciare a molte cose. Per questo, avvertendo quanta fatica stesse facendo la gente a digerire questi improvvisi cambiamenti, ci siamo tenuti lontani dalle polemiche. E preciso che a livello editoriale, avremmo solo fatto il nostro gioco.
A livello pratico come avete organizzato la redazione durante il lockdown?
Come categoria noi avremmo potuto continuare a recarci sul luogo di lavoro, ma di fatto solo io sono stato in redazione tutti i giorni. I miei colleghi hanno continuando tranquillamente a lavorare dalla propria casa.
Qual è il numero di RW al quale sei più legato?
Sempre l'ultimo, accade tutti i mesi di sentire l'ultimo come il lavoro migliore. È difficile soffermarsi su un numero particolare.
In cosa si differenzia l'edizione italiana rispetto a quella made in Usa?
Inizialmente c'erano più punti di similitudine. Marco Marchei, da grande direttore, e vittorio Nava sono stati bravissimi a fare il giusto mix tra lo stile americano e la nostra idea di running. Non a caso Runner's World ha fatto subito la differenza, perché ha portato una ventata nuova nel mondo della corsa. Oggi, il running in Italia è uno sport di massa, dunque è fondamentale personalizzare. La parte di giornale che ci viene ispirata dalla redazione internazionale non è più del 10/20 percento. E' quasi totalmente fatto in casa, con storie e approfondimenti che nascono dai nostri esperti e dalla redazione.
Come e quando la corsa è entrata nella tua vita?
Molto tempo fa. A 14 anni, senza sapere bene perché, ho cominciato a fare atletica. Fino ai miei 19 anni sono stato un mezzofondista di discreto livello, vincendo alcune gare e togliendomi qualche soddisfazione. Poi decisi di partire per Capo Nord in bicicletta, e quando tornai non ne volli più sapere di correre. Poi la vita mi ha portato altrove, iniziai a fare il giornalista, nel tempo libero andavo soprattutto in bicicletta. Solo dopo i 30 anni, quando inizia a collaborare con Runner's World, ho ripreso a correre con continuità, ma in un modo diverso: non mi interessava più il tempo, ma solo godermi il piacere di correre.
La corsa si è trasformato da sport di nicchia a sport popolare: quali gli elementi che hanno contribuito alla sviluppo del movimento podistico?
Innanzitutto la semplicità. Non servono particolari competenze tecniche per iniziare a correre. In secondo luogo, oggi la sensibilità della popolazione verso il benessere psicofisico è aumentata esponenzialmente, la corsa è quanto di più immediato per svolgere un po' di sano movimento. C'è da dire però che molte delle persone che vanno a correre non si definiscono runners, in quanto non inseguono alcun obbiettivo di tipo agonistico.
Nella corsa vi è una particolare singolarità: a fronte di molti amatori, vi è un ristretto numero di professionisti. Come si può incanalare meglio la passione degli sportivi?
Il vero limite dell'atletica leggera, oggi, è quello di non volgere lo sguardo verso i bambini. Solo cominciando a far praticare questo sport ai più giovani, si possono crescere atleti di alto livello. Ad esempio, non ci sono più i campionati studenteschi. Come fai in queste condizioni a far conoscere l'atletica ai ragazzi?
I social secondo te danneggiano o favoriscono la corsa?
Senza dubbio la favoriscono. Si è sempre detto di come la corsa fosse uno sport individuale, in realtà oggi è una delle discipline più aggreganti. Credo che il contributo dei social sia innegabile, vi sono inoltre persone che svolgono un ottimo lavoro di promozione.
Come vedi i prossimi mesi? Quali devono essere le mosse per tornare alle gare nel prossimo futuro?
Credo che l'atletica e la corsa dovrebbero seguire due strade parallele, ma distinte. Il mondo della corsa su strada è in gran parte un mondo dilettantistico, bisogna mettere in atto strategie che consentano alle persone di continuare a stare insieme, divertendosi ma facendolo in sicurezza. Per l'atletica in pista, più orientata verso gli atleti elite, si tratta di consentire alle società di continuare a lavorare in funzione della crescita e della preparazione degli sportivi, verso obbiettivi importanti. Tieni presente che in altre nazioni la corsa su strada non è sotto l'egida alla federazione di atletica.
Cosa ne pensi delle gare virtuali?
Che ce ne sono troppe! Sono un ottimo strumento in questo momento, ma alla fine ci stancheranno. Hanno permesso alle società e alle organizzazioni di promuovere alcuni eventi, ma non vedo futuro, se non a contorno delle gare reali: ad esempio, nel momento in cui si tiene una maratona lontano da casa mia, a cui non posso materialmente prendere parte, partecipare in modo virtuale può essere un'opportunità in più.
Quale sarà secondo te il destino delle gare rinviate all'autunno?
È difficile risponderti, perché la situazione evolve di giorno in giorno. Alcune volte in maniera più pessimistica, altre volte in modo più possibilista. Credo che oggi sia più facile pensare a piccoli eventi, massimo un migliaio di partecipanti, piuttosto che alle grandi manifestazioni. Comunque, a differenza di quanto si diceva nelle scorse settimane, New York non è ancora saltata, credo che un po' tutti gli altri si allineeranno alla loro decisione.
Si dice gare solo per gli atleti elite, che ne pensi?
Alcuni organizzatori potrebbero decidere per questa strada, ma non è la soluzione ideale. Un evento elite ha dei costi stratosferici, gli sponsor difficilmente pagheranno per una manifestazione che non sia di massa. Forse Londra potrebbe prendere questa decisione, dato che dal punto di vista elite è la più attesa, con la sfida Kipchoge-Bekele.
Veniamo a una piaga del running: parliamo di quei podisti che si improvvisano coach.
Internet, purtroppo, in questo caso ha avuto la sua parte di responsabilità. Troppe persone pensano di avere la ricetta per andare più forte, e cercano poi di trasmetterla ad altri. Addirittura, c'è chi fa semplicemente copia e incolla della tabelle che trova in rete, spacciandole per proprie. Chi ha fatto il coach tutta la vita sa che non è così facile. Preparare un atleta non è una cosa che possono fare tutti, non sono sufficienti corsi di un paio di giorni per diventare un tecnico. Servono studi approfonditi di diversi anni, per poter stilare tabelle e programmare allenamenti.
In conclusione, hai fatto parte della crew di Simone Leo alla Arrowead135, come è andata?
È stato faticosissimo. Per Simone è stata una gara lunghissima, mentre per noi è stata una esperienza cortissima, in cui avremo dormito al massimo 4 ore in 3 giorni. Eravamo sempre in ballo per fare o una fotografia, o preoccupati di farci vedere per non farlo sentire solo... cose di questo tipo. Giorno e notte si sono confuse, è stata una avventura davvero singolare.
