
Triste, solitario y final. Come il romanzo di Osvaldo Soriano. Come mi sento io, dopo aver appreso della morte di Diego Armando Maradona. E un po’ come deve essere stata la sua esistenza in questi ultimi anni. Sapevo dentro me, ma probabilmente lo sapevamo tutti, che una mattina, molto prima di quando sarebbe stato lecito e ragionevole aspettarsi per uomo della sua età, a causa della sua vita a dir poco eccessiva, ci saremmo svegliati con un cazzotto in volto, apprendendo la notizia che Maradona era morto. È arrivata all'imbrunire, ma in ogni caso troppo presto, come si temeva. Doveva tirare una brutta aria da qualche tempo, se è vero come è vero che il regista Paolo Sorrentino ha in lavorazione un film sull'argentino già da qualche tempo, mentre il suo ex compagno di squadra e amico Ciro Ferrara, proprio nelle scorse settimane è uscito nelle librerie con una raccolta di aneddoti proprio sul Pibe de oro. Attraverso una crepa in quel muro di silenzio che da alcuni anni lo separava dal resto del mondo, le notizie sul suo precario stato di salute dovevano essere giunte all’orecchio di alcuni. Lo sconforto in ogni caso non si attenua, un po' per il dispiacere di vedere andarsene un uomo che col pallone ai piedi era un vero e proprio miracolo, la prova che vivente che Eupalla esiste. Un po' perché ci rendiamo conto che assieme a lui un pezzo della nostra giovinezza se n'è andato per sempre, noi che una notte di luglio di 30 anni fa l'abbiamo detestato come solo si può fare con i nostri nemici amatissimi, per averci rapinato di un sogno che credevamo già avverato.
Dunque la Mano de Dios è tornata al suo legittimo proprietario. Il fatto che colui che per quasi tutti è stato il più grande genio del calcio, venga tra le altre cose ricordato per un gol segnato con la mano (sinistra naturalmente) contro l'Inghilterra, la dice lunga su quando tutta la vita di questo personaggio sia stato un eterno paradosso. Un ragazzo nato nelle baracche, cresciuto in mezzo al fango, con un basso grado di scolarizzazione, bruttino, grassottello, piccolo di statura. Aveva tutte le caratteristiche per essere il più anonimo degli uomini, un perfetto signor nessuno. Solitamente a quelli come lui è concesso soltanto di vivere e morire in povertà, all'insaputa di tutti. Invece gli dei, o perché a volte si sbagliano o perché si divertono a farci impazzire, hanno unto quel rinnegato con l'estro, la genialità, l'intuito, la folle visione di Leonardo da Vinci, applicate al calcio. Non solo, hanno trasformato un uomo che non sarebbe stato capace di farsi valere in nessun campo della vita, in vero leader. Basta parlare con gli ex compagni di squadra di Diego: tutti, nessuno escluso, si sarebbero buttati nel fuoco per il Diez. Perché era lui a giocare per la squadra, non il contrario. Burruchaga è l’esempio che vale per tutti: è stato il marcatore del gol del 3-2, nella finale dei Mondiali del 1986, nella partita vinta dall’Argentina contro la Germania. Ma è stato Maradona a creare dal niente, modellandolo nella fantasia della sua mente come un pensiero di creta, quel tocco d'esterno che chiunque altro avrebbe spedito troppo lungo, o troppo in alto, rendendo possibile contro ogni legge della fisica far tornare indietro di quel tanto che basta per andare incontro al Burru. Il quale da solo davanti Schumacher, deve aver visto passare tutta la sua vita, prima di depositare in diagonale in rete il gol per quale verrà eternamente ricordato nel proprio Paese. E come lui anche Ciro Ferrara, Careca, Alemao, Giordano, Bagni, Carnevale…tutti protagonisti del Diego Maradona show, creati dall’immaginazione del bambino d’oro.
“Quelli come te non hanno vita facile. Sei due facce della stessa medaglia: da una parte il talento, dall’altro il prezzo da pagare”.
Questa frase è come un vestito cucito addosso all’esistenza di Maradona. Tratta dalla serie tv del momento, “La regina degli scacchi”, non potrebbe descrivere meglio quello che è stato il percorso di Diego. Molti lo hanno paragonato a un supereroe, ma non mi trovo d’accordo con questa definizione. Se fosse stato un personaggio dei fumetti sarebbe stato uno dei cattivi, era un uomo di lotta, non di governo. Ha sempre tenuto in mano la vanga, dandosela anche spesso sui piedi, non era un colletto bianco. Era un personaggio che divideva, non un vessillo universale, una bandiera univoca in cui tutti potevano riconoscersi. Sia a Napoli che in Argentina era amato quanto odiato. E continua a dividere persino adesso che si è spento, fedele alla sua aurea fino all’ultimo. Era un gigante coi piedi argilla, un immaginifico atleta che si contrapponeva a sé stesso sotto le sembianze di un uomo debole. Il puzzo di Villa Fiorito l’ha sempre portato con sé, nessuno gli ha mai perdonato le sue umili origini, probabilmente neanche lui l’ha fatto. Per questo forse detestava tutto ciò che rappresentava l’autorità: la Fifa, Blatter, i Bush, Tony Blair… una volta se la prese persino con Papa Wojtyla, che a suo dire non faceva abbastanza per i poveri del mondo. Per non parlare dell’evasione fiscale, della droga, della camorra. No, di certo non era un supereroe. Era più un bandito, un Robin Hood moderno, rubava ai ricchi per donare ai poveri, quando si trattava di calcio. Regalava alla sua gente almeno un motivo per essere felice. Un imbonitore votato alle anime perse che metteva in scena un spettacolo ogni domenica, ogni volta diverso.
Me la immagino la domenica di Napoli negli anni Ottanta. L’odore del ragù che dalle case si insinuava nei vicoli, impregnando le distese di bucato messo fuori ad asciugare, le paste comprate dai papà nelle pasticcerie del centro facendo ritorno a casa per il pranzo, poi alle 14,30 la messa. Quella che trasmetteva la radio dallo stadio San Paolo. Quale sarebbe stata l’omelia di Don Diego? Qualunque fosse stata la mattana della settimana, la domenica si azzerava tutto. Domenica era giorno di pentimento ed espiazione. Domenica lui, si dava agli altri. Magari avendo fatto sì e no un paio di allenamenti. Probabilmente, come spesso accadeva, Ferrara insieme ad altri era dovuto andare a prenderlo a casa e non si era nemmeno degnato rispondere al citofono. La domenica la gente si aspettava da lui una ragione per sorridere, per affrontare un altro lunedì che non avrebbe offerto nessuna prospettiva. Si metteva l’abito buono, quello della festa e diventava Maradona. Da quel momento ogni suo gesto poteva quello che avrebbe fatto sobbalzare i cuori. Era solo questione di tempo e il miracolo di San Diego avrebbe al solito disciolto i cuori dei partenopei. Il perché è presto detto: basta riguardare ogni singola traiettoria tracciata da quel piede così tozzo, eppure così magico, che è allo steso tempo essenza del suo mito ed ennesima contraddizione. Quel tarso fatato era come una salopette di puro raso. Ricordo in particolare tra le tante irripetibili gesta, una punizione a due in area conto la Juventus, era il 1985 credo. Chi altri avrebbe potuto disegnare nel vento una traiettoria di tale assurda bellezza? Un arcobaleno a esagoni tracciato nell’etere, al termine del quale diviene pignatta colma d'oro: il pallone scavalca la barriera, poi ricade beffarda a filo della traversa, qualche millimetro troppo arcuata per il portiere che si protende inutile verso una sfera che ha già deciso il proprio destino, infischiandosene della viltà di uomini che vogliono annientare un simile splendore. Non sono cose da comuni mortali quelle.
Non so dire se alla fine l’abbiamo perdonato per i suoi peccati, per le sue debolezze. In fondo chi siamo noi per arrogarci il diritto di perdonare chicchessia? Di certo abbiamo consapevolmente scelto di tenerci solo quello che di bello rappresentava. Il fatto che gli stadi siano chiusi, non permettendo quello che sarebbe stato un omaggio e una commemorazione globale, è un vero sfregio alla memoria di questo uomo imperfetto che ha regalato istanti di non trascurabile felicità. Anche se tanti pensano che alla fine si tratti solo calcio, io non per non sbagliare gli porgo il mio saluto, gli sono grato di quel pezzo di giovinezza che conserverò per sempre e spero che ovunque si trovi ora, possa insieme a Massimo Troisi e Pino Daniele, formare il grande tridente della città di Napoli. E per sempre volare, come un aquilone cosmico.